La Terra vista dalla Luna - anno II - n. 13 - marzo 1996

ARTE E PARTE Fotografare la storia: Tom Stoddart a cura di Federica Bellicanta Tom Stoddart ha iniziato la sua carriera di fotografo negli anni Settanta come_ fr~e lance, prima nella provmc1a inglese, poi a Londra. A partire dal 1982 ha documentato con le sue immagini gli eventi più drammatici di questi ~!timi anni. Due volte a Beirut (1982 e 1987), è stato il primo fotoreporter a far conoscere al mondo le condizioni orribili dei campi palestinesi. Nel 1989 ha documentato la caduta del- murò di Berlino, la rivoluzione rumena, la guerra del Golfo e il primo inverno di libertà in Albania. A Sarajevo fin dal 1992, ha vissuto di persona il conflitto nella ex Jugoslavia, rimanendo gravemente ferito durante il primo anno di guerra. Una piccola parte delle foto scattate nella capitale bosniaca è stata esposta a Bologna nella mostra Sarajevo, immagini -da un conflitto. In Italia Tom ,Stodda'.t è rappresentato dall agenzia Contrasto. Puoi spiegare in che cosa consiste il tuo lavoro? · · Sono un fotografo free lance. Ho scelto di non lavorare per un gruppo o per un giornale perché voglio esser~ libero di andare ovunque, d1 dedicare ad ogni storia il tempo che ritengo più oppo~tuno. Vivo facendo fotografie e vendendole ad agenzie o a riviste di tutto il mondo. A volte sono seduto davanti al televisore e vedo che in un luogo sta accadendo qualcosa che giudico interessante. ~ag~ri mi viene un'idea che m1 piacerebbe svilupeare. Allora contatto una nv1sta, sento se la storia interessa e, se la risposta è positiva, parto. Ad ogni modo faccio solo le cose che sento di voler fare. Naturalmente la libertà ha anche un rovescio della medaglia, ovvero la mancanza di uno stipendi_o fisso, la precarietà economica. Cos'è la fotografia per te? È un'opera d'arte, un racconY!X1. to, è comunicazione, un documento, un'esperienza? È tutto questo insieme. Senza dubbio la foto è anche uno strumento di comunicazione, come per chi scrive lo sono le parole. E non se~pr~ per raccontare una stona et vogliono molte foto, a volte ne basta una sola. Nel momento in cui fotografo accade qualcosa di meraviglioso tra me e quella o quelle persone che sto ritraendo. Nulla a che vedere con il "sensazionale" richiesto dai giornali: si tratta piuttosto di un rapporto molto personale che si instaura tra te e il soggetto della foto. Sono affascinato dal r11odoin cui le persone conducono_ la loro vita o si adattano alle circostanze e per questo preferisco ritrarre gli esseri umani piuttosto eh~ i paesaggi. Per lo stesso mouvo amo lavorare vicino alle persone e non uso quasi mai il teleobiettivo. Credo che si possano catturare le emozioni delle persone solo se le guardi negli occhi, se riesci a vedere l'espressione dei loro visi: con il teleobiettivo tutto questo sarebbe impossibile. Poi c'è il fatto che non voglio mentire, n_onvoglio rubare le fotografie; preferisco che le persone che sto ritraendo mi vedano, che sappiano che io sono un fotografo. Non voglio fare come certi fotoreporter che stavano a Sarajevo tre giorni, scattavano foto tutto il tempo senza cercare di capire quello che stava accadendo, senza guardare veramente le persone, senza pensare: "questa donna che sto fotografando potrebbe essere mia madre e potrebbe vivere a Londra o a Bologna o altrove se, per un accidente, la storia fqsse stata diversa". Quali sono le foto che preferisci? Le fotografie delle quali vado fiero sono quelle che trasmettono emozioni. Del resto, se alla fine di una giornata guardi le immag~ni che hai ripreso e non senti nulla, allora il tuo lavoro è stato veramente inutile. Ma quando fotografi una donna che si dispera perché le stanno portando via il suo bambino o un'altra dentro a una cantina che tiene stretto il figlio per proteggerlo, sai che ogni do?-- na capisce quelle foto_grafie, perché esse _earlano_d1 e_mozioni comum a tutti, umversali. Le altre foto che amo scattare sono quelle che ritraggono persone in movi~en~o, intente alle loro occupaz1oru. Perché sei andato a Sarajevo? Perché sono un fotografo e perché c'era una guerra ne! cuore dell'Europa. Pensavo s1 trattasse di una situazione storica molto impo~tante e così sono partito per documentarla. Credo che il mio lavoro di fotoreporter consista nell'informare le persone che vivono in un mondo dominato dalla celebrità, dalle soap opera, dalla moda e dall'apparenza. Informare significa dire: "Guarda cosa sta succedendo a pochi chilometri da casa tua. Non guardare altrove". È doloroso, ma non mi sento in dovere di scusarmi se talvolta le mie foto sono sgradevoli da guardare. Tuttavia non amo le foto violente in modo gratutito, le foto d\ persone mutilate, le scene d1 sangue. Non faccio foto di questo tipo, anche se sono molto richieste dai giornali. Se lo facessi mi sentirei un voyeur. Quando fotografi tu eserciti non solo il piacere di guardare, ma anche il dovere di guardare, l'essere costretto a non distogliere lo sguardo dalle tragedie, dalle atr~cit~, dalla barbarie. Come hai vissuto questo obbligo? . Si dice che quando fa~ questo tipo di lavoro e ve_d! intorno a te la morte, conv1v1 tutti i giorni con scene terribili, allora qualcosa in te deve cambiare per forza. Senza dubbio quello che fai ha degli effetti. Ora che sto invecchiando mi rendo conto che uno di questi è che, quando f~toivafo, per~episco sempr~ più il fatto d1 prendere, d1 sottrarre qualcosa alle persone che sto ritraendo. È molto difficile stare come un idiota di fronte a qualcuno che sta piangendo _perchéha pers~ un figlio. Senti che non. ne h~1alcun diritto e ti _sorprendi eh~ ti permettano d1 farlo e non s1

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