La Terra vista dalla Luna - anno I - n. 10 - dicembre 1995

Passano a parlare di chi ha la ragazza. Mario confida il suo star da solo, standoci bene, dopo una storia di cinque mesi. Nadia, che da un po' dava segni di malessere, chiede di uscire, e Mario, dopo un attimo di collettivo imbarazzo, la segue. Faccio notare quanta difficoltà ci sia ad aiutar·e una persona del gruppo, se solo Mario riesce a farlo, mentre "qui si continua a parlare su una ragazza che Mauro aveva a tredici anni". Mario al suo rientro rivela di essersi accorto che non era stato il fumo delle sigarette ad aver fatto diventare rossi gli occhi di Nadia. Quando anche Nadia rientra, Silvia, ignorandola, si mette subito a raccontare di un suo problema con un ragazzo: lui è ap_passionato, lei non sente niente quando la bacia. Aggiunge che in questi giorni ha anche saputo dal padre della sua decisione di trasferirsi da solo in un'altra città (l'aveva già fatto quando lei era bambina), e di non aver sentito niente quando lui gliel'ha comunicata. È malato, e lei giudica la sua decisione "un modo per fuggire la malattia, è rimasto un bambino". Intanto Nadia continua a piangere e, mentre tutti stanno constatando come con le parole non si riesca proprio ad aiutarla, Marta le porge un rossetto che lei si comincia a mettere. Il mio commento che "dove non arrivano le parole ..." è seguito dall'esclamazione di Marta: "una scatola te ne regalo!". Mario rimpiange che gli uomini non possano far altrettanto per consolarsi, ma provo a suggerire che fbrse non è proprio così visto che lui oggi s'è presentato con i capelli tagliati (li portava lunghi). "L'ho fatto - ribatte - perché erano deboli e li volevo nuovi e forti". Le ragazze gli dicono che sta meglio e lui, rinfrancato, assume l'atteg$iamento del leader buono e ammonisce Silvia di "non giudicare suo padre". Proprio mentre stavo commentando che Nadia sente e dice con le lacrime quel che Silvia non può sentire con le parole Mauro svela di aver visto Silvia piangere, e lei nega di non sentire proprio niente. Intanto, forse perché a Nadia era tornato ancora da piangere, Marta mi chiede (era verso la fine) d'interrompere. Lo faccio, cogliendo nel pianto di Nadi?, una comunicazione rivolta soprattutto a Silvia: "forse Nadia ci vuol dire che di quel che ci ha messi a parte di straziante riguardo a suo padre se ne può parlare solo con le lacrime". Ribadisco però che ci possono essere anche altri modi per comunicarlo. . L'incontro seguente sono di nuovo ridotti alla metà. Silvia fa un primo lapsus, chiamando il fratello padre, e un secondo definendo i problemi di un'amica che vorrebbe aiutare "i suoi problemi". Nadia mi chiede se mio figlio ha dei problemi. "Se lui li ha - rifletto ad alta voce - vuol dire che anch'io li ho". Aggiungo che mi pare di vederci qualcosa di simile a.come si stanno sentendo rispetto ai compagni più giovani: "se loro hanno problemi allora vuol dire che anche noi li abbiamo, possiamo dire dei nostri attraverso i loro". Nadia comunica che lei i suoi problemi vuole scriverli .per poi dirli un giorno a una figlia, "rimodernarli" in questo modo. A Silvia, scettica, dice: "magari, chissà, potrei risolvere i miei problemi proprio grazie a lei". Colgo il nesso con la storia del racconto che abbiamo appena finito di leggere, narrata da un padre a un figlio. Noto eh.e anche il protagonista del libro il suo problema sembra averlo risolto liberandosene con la scrittura e dandolo al figlio in forma di rac- "fascina", il ragazzino o la ragazzina di turno venivano fatti stendere per terra e tutti gli altri di soprafino al limite aeltiofj ocamento; oppure si costringeva qualcuno a s errare dei pugni al sedile anteriore di legno ino a sfondarlo, o a strofinare le nocche delle dita contro qualcosa di ruvido fino a farle· sanguinare. Anche una provocazione era un pretesto per massacrare di botte qualcuno: "Quello è il posto mio. Alzati!" L'ignaro risponde "Ma adesso ci sono seduto io". E giù botte. Il tutto con la complice indifferenza del personale viaggiante che non si immischiava in certefaccende,finché non si arrecavano danni-a "oggetti e arredi del treno". Dopo questi e altri particolari, ho provato due sensazioni immediate: laprima di disgusto, ma la seconda, forse peggiore, della mia assoluta inutilità, inadegùatezza, miopia nel mio ruolo di insegnante e quindi di educatore. Che ci facevo lì, in quel momento a parlare di Amnesty, di realtà vere sì, ma lontane quando chi ha bisogno di noi lo abbiamo di fronte? Non c'è stato nessun dibattito dopo questo sfogo, anche perché tutti sapevano, ma nessuno aveva voglia di parlarne. Solo Andrea ha riassunto il pensiero che ha permesso di perpetrare questa "consuetudine" per anni: "Anch'io ho subito queste cose, quin~i è normale che le subiscano anche gli altri". E una forma particolare di "nonnismo" come avviene nelle caserme (ricordate il recente caso di "suicidio"?), solo che qui, a quanto pare, non vengono risparmiate le ragazze. La vicenda ha avuto un seguito. Per fortuna, una volta tanto, ha vinto l'intelligenza del corpo docente e del Preside, e tutti abbiamo concordato di agire più sufpiano educativo che su quello punitivo. Si è affrontato il problema nelle varie classifacendo capire soprattutto ai più giovani che l'omertà non giova a nessuno, non è una questione d'onore; parlare non è vigliaccheria. È stata anche informata la Polizia Ferroviaria, e, dopo l'ennesimo sopruso, è scattata la denuncia da parte di due ragazzini, apparentemente molto timidi, ma che alla fine hanno capito che la cosapiù giusta da fare non era subire, sottomettersi, ma guardare in faccia questi "boss in nuce" e avere il coraggio di spezzare que~ta spirale di violenza. · E un cambiamento molto importante. La scuola può intervenire solo così, mutando gli atteggiamenti, lo stato di cose dato per scontato, smuovere gli animi, perché ognuno abbia coscienza dei propri diritti e doveri, ma soprattutto della sua dignità. ♦ .. BUONI E CA ITIVI

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