La Terra vista dalla Luna - anno I - n. 4 - giugno 1995

zate dal narcisismo, riemergono arrogantemente la falsità funzionale, l'ipocrisia, il fanatismo latente delle Grandi Categorie e degli "assoluti". L'Onore, la Vita, il Bene, il Destino, la Razza sono parole vuote ma "servono all'individuo per deresponsabilizzarsi" (p. 90). È peggio della guerra civile o del conflitto: il "senso della realtà" (p. 90) non riesce a prevalere sull'ideologia o sui suoi surrogati. Se non ce ne accorgiamo è so- · lo perchè non. vogliam·o vederlo o perchè siamo scemi: il "delirio dogmatico, .. la regressione verso l'assolutismo, l'intolleranza ideologica" i fanatismi religiosi e l'integralismo dovrebbero "insegnarci lo schema di un pericolo mortale"(p. ·91). E invece restiamo. stranamente ciechi e continuiamo a aspettare e a non capire. La verità, forse, è che le cose cambiano ma non cambiano troppo. Le "tarantolate" inseguivano una chimera, si fissavano in un rito inutile ma tutto sommato innocuo e pacifico. Noi non siamo più razionali, più "laici" o più intelligenti. Ma dagli "strati meno consapevoli" della nostra pische - privata e collettiva - si generano adesso riti, fantasmi, comportamenti molto più estremi e pericolosi. J ervis parla di un rischio "mortale", di "fuga dalla realtà", di intolleranza. La cosa curiosa è che in questo scenario così grottesco e così confuso non si ca.J?isceneanche tanto bene di chi sia la colpa o chi siano veramente i buoni e chi i cattivi. Viviamo in un mondo abbastanza idiota, abbastanza crudele e imbecille. Abbastanza imbecille, soprattutto. Forse la colpa non è di nessuno. Come diceva Diderot, l'imbecillità è sem.J?r_e,:'una disgrazia, non un viz10 . Sopravvivere al millenio non si accontenta però di questa fenomenologia della stupidità (e delle sue conseguenze futili o aggressive). Nel saggio di Jervis c'è un tentativo più r!ldicale di interpretazione. Per Enzensberger, il male viene da una carenza politica e sociale, da una diminuzione del potere e dell'autorità. Nel disagio culturale e civile che ci paralizza, nella crisi "mortale" del nostro mondo comune e delle sue espressioni anche istituzionali, J ervis ravvisa - mi sembra - un'altra patologia e una minaccia diversa, anzi di segno opposto. La "disgraz.ia" della stupidità non riguarda (direttamente) i singoli; il male non sta nell'arbitrio dello stato di natura, in un eccesso di libertà senza direzione. Secondo uno schema più sfuggente ma più articolato, Jervis individua le cause autentiche del male precisamente nell'esaurimento forse irrimediabile di un modello tradizionale di "rapporto fra l'individuo e la società" (p. 34) e in un sovraccarico di pressione sociale sulle strutture precarie dell'identità personale e sui confini labili dell'io. Il male nasce den'tro la società. L'io. - osserva Jervis, riprendendo Freud - tenderebbe in effetti a pensarsi perfettamente libero e assoluto, a seguire tutti i suoi istinti, tutte le sue pulsioni. Il fatto stesso di vivere insieme - la vita civile, la società - genera disagio, nevrosi è sofferenza. L.a civiltà "eleva l'uomo al di sopra dei suoi istinti, ma solo al prezzo di un disagio, che è ineliminabile" (p. 34 ), È un prezzo obbligato. Per mantenerci in un orizzonte comune e praticabile, per non riaprire lo stato di natura, per sopravvivere all'aggressività, dobbiamo sottometterci a una disciplina µ1orale, a istanze "civilizzate" di autorità e dovere, -a un rigido meccanismo repressivo èhe impone "sempre qualcosa di angoscioso" (p. 37). La repressione evita la morte. Jervis recupera il "pessimismo" sociale di Freud ma lo rovescia e cerca di liberarlo di ogni componenete reazionaria. "La nevrosi del mondo civile" non scaturisce (come in Enzensberger) da un "difetto delle funzioni del Superio"( dell'autorità esterna, della disciplina tradizionale), da una sua carenza . "Quasi sempre il Super-io .. tende a pesare in modo eccessivo nella vita del singolo" (p. 37). Il Super-io (il suo codice ottusamente rigido, la sua voce morale p·aradossalmente esterna e predefinita) non è "un istanza matura" e consapevole: 9uasi semrre ~? effetti e vero il contrario: questa funzione della nostra psiche ha invece _sempre qualcosa di rozzo e di arcaico, e esprime proibizioni e giudizi che non provengono tanto dalla comprensione della vita soci.aie quanto da residui di paure infantili". J ervis coglie così la natura intensamente paradossale della crisi etica in cui siamo invischiati. Nella "civiltà occìdentale matura", è esattamente l'apparato della moralità tradizionale a bloccare irrimediabilmente lo sviluppo di un "etica razionale" (p. 38) e di un atteggiamento di conspevole reali_smo nei confronti della nostra vita e dei nostri rapporti con il mondo e con gli altri. Kant avrebbe parlato di eteronomia. Dal canto suo, illuministicamente, )ervis pensa a un'etica puramente razionale. La stupidità, il conformismo, l'impasto di aggressività e superstizione caratteristici della nostra vita pubblica e J?rivata non sono immorali; piuttosto recano il segno di una. moralità troppo infantile, di un'esasperante carenza di autonomia e di indipendenza. Siamo abituati a obbedire non a scegliere. Questo però Freud l'aveva capito: "la risposta all'eccesso di repressione non consiste affatto nel cortocircuito dello sfogo ma in un'inesauribile ricerca della consapevolezza" (p. 50). Possono sembrare osservazioni facili o banali. Ma l'invito al realismo, l'apologia illuministica della consapevolezza, i "consigli" di Jervis hanno anche un imprevedibile aspetto rivoluzionario e una stranissima componente "anarchica". La partita decisiva si _gioca prima della politica, e fuori dai confini della società. Dovremmo partire dal "pieno diritto individuale alla critica e alla disubbidienza" (p. 38); pensare "da sè"; imparare a "giudicare senza quell'insieme di regole consuetudinarie che costituiscono la moralità" (H. Arendt). Per "sopravvivere" a questo millenio avremmo bisogno di una morale senza potere e senza obbedienza. ♦ Yf2Q.

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==