La Terra vista dalla Luna - anno I - n. 4 - giugno 1995

Tra teoria e prassi: i limiti dell'intervento sociale e della sua cultura Stefano Laffi Stefano Laffi è ricercatore sociale presso il centro di ricerca Synergia di Milano ♦ Mi piace pensare alla "Terra vista dalla luna" come a una rivista capace di innescare reazioni a catena, di caricare la molla, di muovere al1'azione. Non riesco a vederla come un oggetto statico, mduttore solo di ammirazione, consenso o diniego: dovrebbe esserci nella sua formula una "chimica forte", capace di reazione con qualsiasi elemento entri in contatto, cioè con qualunque lettore abbia almeno deciso di provare a leggerla. Mi piace, in altre parole, pensare che sia possibile "dare del tu" al lettore responsabilizzarlo, anche solo da un punto di vista informativo o riflessivo. In fondo "La Terra" ha un buon punto di partenza: non nasce per ragioni di mercato - anche se "sul" mercato ci deve stare, ed è un mercato dec isamen te saturo, dove la niccchia per una nuova rivista è decisamente, prima ancora che di target, di spazio fisico in edicole e librerie straripanti. E non nasce per la ragione per cui altre riviste, anche serie e spesso interessanti, sono sorte e si mantengono: dare voce ali' Accademia, _permettere che le carriere universitarie, che di pubblicazioni si alimentano voracemente, possano riprodursi attraverso articoli che d.;iqualche parte devono pur essere riprodotti, non importa se completamente autoreferenziali, scritti per chi li ha scritti. Ma questa gratuità d' origine - e si ribadisce che è importante premiarla acquistando la rivista, cioè riconoscendone il diritto all'esistenza - è in realtà forse tutt'uno col suo statuto, di "rivista dell'intervento sociale": così pure ·quella chimica forte di cui dicevo non può mancare nel Yf2f.:1. suo Dna. Non può cioè esser rivista né da scaffali di biblioteca di istituto universitario - anche se sarebbe benissimo che un giorno ci fosse un'università che proprio que~to sa~ pere contemplasse nei suoi programmi - né da salotto conviviale (a qualunque livello intellettuale), dove si discetta di tutto e di niente, con la stessa rassicurante distanza, inscalfibilità al mondo; Ma non è questione da poco chiedere a una rivista tale ambizione, non solo perché è raro trovare nel settore editoriale (che deve pur sempre vendere, quindi compiacere) questa valenza di provocazione e sollecitazione ad asire, ma anche per una questione strutturale al tema in questione, cioè l'intervento sociale. Un sapere del sociale Credo che il nodo cruciale, con cui anche "La Terra" si confronta e contro cui probabilmente un po' si infrange, sia proprio quello del raccordo tra teoria e prassi nel sociale. Se l'intervento sociale è accudire un malato, informare un_sieropositiv?, far compagnia a un anziano, cosa può/ deve fare una rivista? E come? L'estrem,a concretezza, lo scarso "lirismo" della maggior parte delle situazioni in · questione - cosa c'è di più prosaico del pannolone dell'anziano? - e al tempo stesso le razionalità estranee e misteriose al senso comune dei suoi protagonisti - cosa e come pensa un tossicodipendente, un cosidetto malato di mente, un bambino down? - finiscono forse per sottrarre gran parte degli elementi fondamentali dell'intervento sociale alla possibilità stessa di una "letteratura", sia essa inresa come racconto o riflessione verbale e comunicabile tramite una rivista. Il problema è, più radicalmente, probabilmente quello dell'esistenza. e della trasmissibilità di un sapere in questo campo. E le d.ue questioni, esistenza e trasmissibilità, sono legate da un circuito perverso. Tutti gli attori in gioco sembrano rischiare il proprio scacco: chi fa informazione conosce la propensione dei giornali a trattare temi in funzione esclusiva de loro impatto emotivo, chi fa ricerca sa di avere moltissime probabilità che i propri studi approdino intonsi nell'archivio o nei cassetti di qualche ufficio, chi fa la formazione è consapevole che l'effetto del proprio intervento può spegnersi una volta che i corsisti escono dall'aula, chi fa politica sociale sa che la burocrazia dei servizi e il vincolo delle risorse ritraducono completamente i programmi di intervento. E chi interviene in prima persona va incontro a una frustrazione o a un probl~ma di s~nso del propri<;> agire non minore. Su un terreno dove domina l'urgenza della richiesta di aiuto, si rischia di attribuire a qualunque discorso il significato di tempo sprecato, di elucubrazione o lusso che non ci si può permettere. In ·buona o cattiva fede. Per esemplificare le due situazioni, non so quanti bravi operatori sociali leggano questa rivista o abbiano voglia di farlo. Ma so anche quanto sia facile rendere questo argomento un alibi e farne una prassi politica: penso ai proclami di certe amministrazioni cittadine alla concretezza, che si traducono nel tentativo di trasformare la politica sociale in una delega completa dei p_ro?le~i a co_o_perative, associaz10m o servizi, con un attenzione esclusiva al risparmio di risorse, e una rimozione sostanziale dei suoi contenuti. Sempre più un assessore ai servizi sociali riuscirà a qualificare l'intervento sicuramente in termini di spesa, ogni tanto raccontando con quali modalità, quasi mai specificando con quali effetti. Eppure non bisogna demordere: occorre certo pro~ blematizzare - e sarà questa la molla caricata dal presente artico lo - ma anche prendere consa_pevolezza degli inganni sottesi all'abbandono del ragionamento, per ursenza, sfiducia o cattivo consiglio. Innanzitutto, va riaffermato che un sapere esiste, ed è. qui più prezioso che altrove: la cosiddetta cumulabilità di questo sapere è evidente a

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