La Terra vista dalla Luna - anno I - n. 2 - marzo 1995

B andamento "chiuso" e circolare. In Godwin, proprio alle origini di questa vicenda, l'anarchismo era soprattutto una sfida morale e un'intransigente omaggio alla ragione. Nel suo estremismo giusnaturalistico, nel suo razionalismo radicale, Godwin vedeva nella Giustizia e nell'anarchia le condizioni per emancipare davvero tutti da un'avvilente stato di minorità e per affermare definitivamente quell"'indipendenza individuale", quel "sano e tranquillo progresso della ragione" che il programma dell'illuminismo reputava essenziali per una vita sociale più consapevole, più libera e civile. Un secolo dopo, con Malatesta, nel punto terminale della sua parabola, l'anarchia ritrova nuovamente questo accento "morale". Fuori da ogni pretesa sistematica, abbandonata l'illusione di costruire l'ultima teoria politica, l'anarchia diventa per Maltesta "un'aspirazione umana" e un "senti- ,, "L' . '" ·1"d mento . autonta , i ominio violento degli uni sugli altri" è il "nemico primo da abbattere" (p. 149), lo scandalo più degradante della Storia. E alla realtà raggelante e penosa del potere, l'anarchia oppone una coerente "rivolta morale" (p. 143). Tutto dipende dalle nostre libere scelte e dal desiderio di giustizia e dalla volontà. L'anarchia "trionferà" veramente soltanto "quando tutti saranno anarchici" (p.152). C'è in Malatesta un tenace, sistematico, sforzo educativo (e anche propagandistico) "di dare al1' anarchismo un significato universale di comunicazione e di riconoscimento" (p. 152). La sua scommessa, la sua intuizione forse più intelligente, sta esattamente nel tentativo di "saldare l'ideologia anarchica .al senso comune" (p. 150), di sciogliere l'anarchia nel senso comune. L' anarchismo diventerà così un certo modo di guardare il mondo o - come in Berneri - un "puro giudizio di valore". Probabilmente l'aspetto più significativo dell'avventura, della traiettoria "classica" dell' anarchia, sta in questo paradossale ritorno alle origini. Dalla morale, si torna alla morale. Quest'immagine dell'anarchia come giudizio morale, come qualità dello sguardo, come prospettiva critica su qualsiasi forma di dominio, si prolunga del resto ,caGinoBianco oltre i limiti della tradizione "classica" e ufficiale. Nel capitolo più interessante della sua ricerca, Berti tenta di delineare una sorta di "mappa" dell'anarchismo "post-classico" contemporaneo. Anche molto distanti tra loro, i protagonisti di questa nuova fase condividono una sensibilità, un'attenzione, uno stile comuni. L'anarchia classica individuava il suo fine essenziale nello "sterminio del potere e della politica" (Proudhon), nell'estinzione dello stato, nella "distruzione della politica" (Bakunin). L'obiettivo degli anarchici "post-classici" è molto probabilmente più ambizioso. La politica, lo stato, non sono "l'ultimo rifugio della volontà di dominio" (Bakunin) e neppure il più grave. E poi la società non "cammina da sola" (Proudhon). Per gli anarchici, oggi, lo scandalo del potere e del dominio si è mimetizzato (anche) in altre dimensioni, in altre zone dellavita comune e personale: nello spessore opaco e indefinibile del mondo sociale, negli interstizi scontati e nelle "istituzioni" della quotidianità (la scuola, la famiglia, la coppia, gli uffici, i modelli di cura, ecc.), nei linguaggi della scienza e del senso comune. La società è (quasi) peggio della politica, in un certo senso: "questa casa è tutta da bruciare". Così i nuovi anarchici fanno i mestieri più strani e più diversi. Psicoanalisti (Colombo), antropologi (Clastres), urbanisti ed ecologisti (Bookchin e Ward), filosofi e linguisti e educatori (Castoriadis, Chomsky, Goodmann) esplorano con grande curiosità - e, mi sembra, con grande rigore - le gerarchie invisibili nascoste nella nostra "uguaglianza tra diseguali" (Bookchin), le asimmetrie e i sedimenti di dominio latenti in infinite pratiche sociali illusoriamente neutrali o innocenti. E forse questa istanza "anarchica" (almeno in senso lato), qu_estavolontà di decifrare irriverentemente le maschere e la "microfisica" del potere, i suoi sottoprodotti, le sue manifestazioni anonime e elusive è più diffusa di quanto non si creda. Forse la "lista" di Berti potrebbe persino essere allargata (e penso a gente come Foucualt o Illich; a Habermas, alla sua critica della colonizzazione delle forme di vita e all'idea di una "comunicazione" libera da ogni elemento di dominio; allo smascheramento del paradigma patriarcale della scienza moderna di Evelyn Fox-Keller o alla critica del conformismo narcisista di Cristopher Lasch; alla decostruzione dei pre~uppo_sti_autorita~i della soc10logia rn auton come Wright C. Mills o come Zigmunt Baumann). Ma oltre alla lotta contro il conformismo (sociale) e contro il potere, oltre all'intuizione della necessità di inventare forme nuove (più libere, più fantasiose) di individualismo, oltre alla critica di quell'ipocrita "etica dell'obbedienza", di quella sorta di grottesco spi~ito aziendal_estupidamen~e emico, meccarncamente passivo, sempre auto-indulgente e deresfonsabilizzante così tipici de nostro "carattere" nazionale (e così legati anche alla storia di una certa sinistra molto pigra e molto dogmatica), c'è un altro aspetto della lezione anarchica che oggi pot~ebbe rivelarsi davvero prezioso. Berti osserva a un certo punto che l'anarchia "ha solo una teoria della politica (la rivoluzione"), e,che conosce solo un "unico modo di attivare la critica del principio di autorità" (p. 19). Questo è precisamente il limite, l'elemento più datato e paradossale, del pensiero anarchico. Il motivo è ovvio. Screditando in modo radicale l'intero ambito della politica, negandogli qualsiasi forma di valore per la vita umana, ma concentrando tutti i suoi sogni di cambiamento, le sue speranze di trasformazione in un unico, definitivo, atto rigeneratore, l'anarchia si perde per forza di cose in un vicolo cieco. Coerentemente priva della politica, la rivolu-

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