B commes~e passino attraverso intermediari che risiedono a Hong Kong o Taiwan o comunque in Paesi che sono arrivati prima alla condizione di Nic (New Industrialized Countries). Si tratta di centri di intermediazione strutturati, con operatori che mantengono continui collegamenti con imprese produttrici/distributrici europee o nordamericane. Un esempio: un imprenditore con un· nuovo stabilimento a pochi chilometri da Dhaka stava producendo nel febbraio 1994 dei jeans per la catena francese di ipermercati Auchan. La commessa era stata ottenuta attraverso un intermediario di Hong Kong che curava anche l'importazione della tela dal Giappone. A lui la responsabilità di reclutare e gestire la forza-lavoro, di procurarsi le macchine necessarie: all'intermediario la .responsabilità di procurare la materia prima oltre che lo sbocco di mercato. Una situazione molto comoda per l'imprenditore del Bangladesh che gli permette anche, se necessario, di esportare facilmente gli utili dell'operazione, attraverso il semplice meccanismo della sotto-fatturazione del prodotto e la sovra-fatturazione delle materie prime importate. Sono tutte strutture quindi molto precarie: le case-madri mantengono nelle loro sedi in Europa o in Nord America lavoratori specializzati per la progettazione e la definizione dei modelli, a volte anche per il taglio. Ai lavoratori del Bangladesh viene riservata solo la fase di cucitura: una specie di lavoro a domicilio a scala mondiale, una dilatazione intercontinentale di fenomeni già conosciuti nell'Italia del boom economico. Ci sono imprese, so per certo di una nota ditta di confezioni del biellese, che ha decentrato in paesi come il Bangladesh il 100% delle produzioni che un tempo faceva in Italia. Qui in Italia è restata solo la progettazione e la commercializzazione: da 800 addetti l'occupazione è scesa a 300 unità. Fra questi lavoratori esiste qualche forma di organizzazione? In Bangladesh, fra questi lavoratori è impensabile organizzare alcuna forma di rivendicazione sindacale, dato lo squilibrio esistente fra l'offerta di forza-lavoro e la domanda. Nel mio ultimo viaggio in Bangladesh ho avuto modo di discutere di questi problemi con la presidente di una organizzazione di volontariato che si chiama Nuk ( Centro per l'iniziativa delle donne). Mi ha spiegato in modo COOPERAZIONE INTERNAZIONALE assai convincente che per ora è prematura ogni azione di organizzazione sindacale all'interno delle fabbriche, se così si t,ossono chiamare, ma che è più produttivo lavorare per migliorare le condizioni di vita delle lavoratrici. La sua organizzazione ha in progetto di aprire un ostello, dove oltre a una migliorata offerta di alloggio, alimentazione e igiene, si possano garantire anche servizi di alfabetizzazione e, se necessario, assistenza legale. Infatti i casi di violenza anche di tipo sessuale, s~mo frequenti. Le donne sono sempre in situazione subordinata ai maschi sia in fabbrica (i dirigenti superiori, e gli stessi caposala, sono sempre maschi) sia fuori qove sono esposte a molestie e aggressioni. È anche facile che queste ragazze siano trascinate nel circuito della prostituzione: se si perde il lavoro, per un motivo qualsiasi, la condizione di isolamento e sradicamento, di rottura con schemi di controllo patriarcale, facilita questa soluzione alle difficoltà della sopravvivenza urbana. Un classico da prima rivoluzione industriale inglese: questa è l'impressione che uno ha quando si immerge in questo mondo. La questione della massiccia entrata sul mercato del lavoro delle donne ha per altro vari risvolti. Discutendone con i miei amici del Bangladesh, si osservava che, seppure in queste condizioni ignobili e tremende, si possono cogliere i segni di un affrancamento sociale, perché le donne, che non hanno di fatto in quella società nessun diritto, conquistano in qualche modo un'autonomia di vita del tutto nuova, un lavoro che nella sua precarietà è comunque più stabile, l'amministrazione dei propri soldi, anche se in larga parte devono darli alla famiglia che le ospita o mandarli alla propria. Nonostante questo, i soldi li ricevono nelle loro mani dal padrone. I gruppi che là si occupano di questioni "di genere" vedono dunque la. situazione come contraddittoria, ma in qualche modo positiva per la condizione delle donne. Ma si può dire che questa industrializzazione abbia i caratteri di un "decollo", secondo gli schemi prevalenti almeno fino a qualche decennio fa nella visione dei rapporti fra i paesi sviluppati e quelli arretrati? Nella pubblicistica delle classi dominanti, dei governi e in qualche modo anche delle istituzioni internazionali, questi fenomeni vengono valutati positivamente ed indicati come l'inizio di una nuova fase di sviluppo. Si registra una crescita del prodotto lordo interno e delle esportazioni e quindi, in accordo alla filosofia o meglio "teologia" della Banca Mondiale, si avvia il circolo virtuoso di maggiori introiti in valuta, capacità di risanare il debito estero, maggiore fiducia dei detentori di capitale nazionale ed internazionale, maggiori investimenti e quindi "sviluppo". Gli esempi che vengono indicati sono geograficamente e storicamente vicini: Taiwan, Corea del Sud, Malesia, Singapore ed ora anche la Thailandia. Il mio giudizio invita a maggiore cautela e minori entusiasmi: se è vero che queste nuove attività muovono capitali, stimolano nuove imprenditorie e soprattutto creano forza-lavoro di tipo industriale, occorre tenere presente che siamo in una situazione di elevatissima precarietà. Tutto dipende dal lato della domanda: lo spostamento da un paese ad un altro delle commesse dipenderà dal tasso relativo dei profitti che si possono ottenere da queste operazioni. Gli intermediari o le stesse imprese dei
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