Lo Stato Moderno - anno V - n.7 - 5-15 aprile 1948

LO STATO M0DERNO .173 nemico o concorrente (ad esempio la Russia). Essendo questo aspetto necessariamente cronachistico e contin– !l'ente, e come tale vissuto nelle polemiche che attual– mente ci deliziano, qui non ci interessa. La seconda parte è invece estremamente importante per cercar di sapere che cosa realmente vogliano, alla lunga, gli Stati rniti. Walter Lippmann, che in gioventù risiedette a lun– go in Europa e quivi forniò il suo pensiero, fu tra i primi americani a rendersi conto del pericolo che il militarismo di Guglielmo II e il fascismo poi, rappre– sentavano per lo sviluppo pacifico dell'Europa e della America: anche - e ciò è importante - per quest'ulti– ma. Di questa coerenza bisogna dargliene atto. Nei suoi libri ed in molti articoli, scritti dall'avvento di Hitler al potere in poi, egli dimostrò, con una evidenza che ha oggi del sensazionale, che il fascismo avrebbe scatenato una guert·a imperialista, non appena ne fosse stato in grado. Finchè, avvenuto il fattaccio, con l'au– torità giustamente meritatasi, egli non pubblicò una teoria di quella che, secondo lui, dovrebbe essere la poli– tica estera degli Stati Uniti. E' qui che, a parer nostro, occorre soffermarsi, anche perchè la precedente teoria sopraesposta non ne è che un opportuno adattamento. « Il principio fondaméntale di una politica estera - afferma sin dall'inizio il Lippmann - consiste nel porre in equilibrio. con un confortante sovrappiù di potenza di risen-a, gli impegni e la potenza della Nia– zione». E, di conseguenza, grandiosi essendo gli impegni statunitensi - difesa del continente americano, controllo dell'Europa ad evitare che sulle sponde atlan'. tiche si possa insediare una potenza ostile, controllo del Giappone e mantenimento dell'integrità territoriale della Cina, ecc. -, grandiosi d11bbono essere i mezzi difen– sivi. La storia deve pure insegnare qualche cosa; e « la storia delle nostre relazioni estere nel XX secolo - afferma l'A. - è la storia di un fallimento». Monroe, Taft, Wilson furono dunque dei pericolosi idealisti per– chè accrebbero gli impegni del paese senza preoccuparsi di accrescerne correlativamente i mezzi. Ora « i mezzi elementari coi quali deve condursi ogni politica estera sono le forze armate della nazione, la sistemazione della sua posizione strategica, e la scelta delle alleanze ». Tutto il resto non conta, anzi il pericolo sta proprio nel fatto che « nell'ideologia americana dei nostri tempi queste cose avevai;i finito per essere considerate milita– resche, imperialiste, reazionarie e areaiehe; i 'benpen– santi eran tenuti a desiderare la pace, il disarmo, e, a scelta, il non intervento o la sicurezza collettiva ». Mi– raggi. ci spiega il Lippmann, miraggi. « Il risultato ne– gativo dell'ideale pacifista è di far sì che la nazione trascuri le sue difese e ignori i suoi nemici ». Iessuno che non sia perduto nel mondo delle nu– Yole,può ignorare la grande e talvolta decisiva impor– tanza che acquista, ai fini di una saggia politica estera, l'opportuno sfruttamento di determinate posizioni stra– tegiche. « I dati della geografia sòno permanenti - scri– v~ Lippmann -, il movimento della storia è qualcosa di positivo, e i mulini degli dei macinano lentamente; così le successive generazioni di uomini si trovano a dover affrontare sempre gli stessi problemi ed a reagire ad essi in modi più o meno abituali». ;Ma lo scrittore americano va molto più in là. Egli afferma in parole povere, non solo l'assoluta prevalenza del fatto « ma– teriale> in politica estera, ma anche l'inutilità della visione «idealistica» (i mulini degli dei macinano lenta– mente...). Per cui, in sostanza, egli nega che vi sia la possibilità - sia pure entro determinati limiti - di attuare « politiche diverse» in materia di rapporti in– ternazionali (una politica estera socialista o capitalista; progressiva o reazionaria, difensiva o aggressiva, paci– fica o imperialista, ecc.) e pone l'alternativa: o la poli– tica estera, è quella che risulta da un equilibrio - con « un confortante sovrappiù di potenza di riserva » - tra gli impegni e la potenza della nazione, oppure non si può parlare di vera politica estera. E' evidente che Lippmann accetta qui una dottrina la quale, anche se sorta solo dopo la prima guerra mon– diale, è agli europei anebe troppo nota. E' la famosa « geopolitica » che da Ratzel é da Maull, sino a Rich– thofen, a Penck, a Ancel, ad Hauser, ha esaltato il fattore geografico a solo dominante la politica, una dot– trina che sconfessata criticamente ed anche praticm:nen– te fallita in Europa - con la sconfitta di Hitler cbe fu il suo fanatico fautore - sembra ora essersi rifugiata in America. Frontiere, territori chiave, punti strate– gici, spazio vitale (che Lippmann parafrasa in « orbita vitale ») noi ben lo conosciamo questo sinistro lin– guaggio. Nessuno· può negare l'importanza del fattore geo– grafico nella scelta e nella attuazione di una politica estera, ma è evidente che sbaglia chi si affida unica– mente ad esso. L'errore della geopolitica non sta nella geopolitica stessa, ma nel volerla considerare quella scienza, ehe non è, anzicbè un metodo od un elemento di valutazione. Che cosa significa ordunque equilibrio tra gli impegni e la potenza di una nazione? Forse che, interessata com'è ora l'America ad evitare ehe le sponde dell'Atlantico cadano in mano ad una potenza presu– mibilmente pericolosa, essa debba tener pronta una flotta navale ed una flotta aerea tali da battere la più forte delle coalizioni? Ma è evidente che in tal caso - anche trascurando gli effetti psicologici di una tale ten– sione e l'aspetto economico di una siffatta preparazione - nasce dalla potenza stessa di questo apparato uno spostamento in avanti di questa zona d'influenza ameri– cana, per cui occorrerà altra potenza, la quale a sua volta amplierà la sfera di azione americana, e così via ... fino ad urtare la zona di sicurezza di un'altra potenza globale. In quest'ultimo caso che cosa avverrà? A questo interrogativo Lippmann ha risposto fin dal 1936 in modo terribile: « Quando l'oggetto della controversia è l'egemonia, il mondo entra in un periodo di guerre totali, che si risolve solo con la distruzione di tino dei contendenti ... Una questione di tale natura non può essere decisa dinanzi ad un tribunale nè essere oggetto di un compromesso ; e quando essa sorge, la pace non è che una tregua armata in cui i combattenti si prepa– rano per la prossima battaglia» (La giusta Società, pa– gine 200). La guerra sarebbe dunque almeno in teoria la con– seguenza logica della geopolitica di Lippmann (egli la chiama eufemisticamente « Nazionalismo illuminato». A ben vedere però egli non si discosta di molto dalla ter– minologia della « Zeitschrift der Geopolitik »), come fu prima della geopolitica nazista. Un duro metodo che se apparve. ai principi del secolo, a Normann Angell, « una grande illusione», questa volta lo sarebbe due volte di più. Monroe, John Hay, Taft, Jefferson, e anche Wil– son sbagliarono senza dubbio il rapporto di equilibrio tra impegni e potenza, ma feeero più grande e rispet– tato il loro paese perehè seppero essere fedeli ai grandi ideali dell'umanità. ENRICQ SERRA

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