Lo Stato Moderno - anno V - n.5-6 - 5-20 marzo 1948

130 LO STATO MODERNO IL DRAMMA DELL'EUROPA Non capitò un giorno a ciascuno di noi, in un mo– mento di più immediato contatto con la realtà della guerra: forse una volta uscendo dai cunicoli d·elle Fosse Ardeatine, o allontanandoci da una città semidistrutt11. o semplicemente nel leggere una statistica di morti e di feriti o di naviglio affondato; non ci è accaduto di essere presi da un dubbio più agghiacciante di quèlle stesse visioni: che tutta la vicenda di questi anni sia stata inu– tile? L'aspetto più insopportabile di tanta esperienza sa– rebbe proprio questo: che fosse passata su di noi come l'acqua sulle penne dell'anatra. Ebbene, si può senz'altro escluderlo? Appena presen• latasi alla mente, questa eventualità si scioglie da sola? Non ne rimane all'ottimista uno di quei residui molesti, che lasciano un solco di dubbio, un rimorso segreto? Siamo sicuri di non essere nè illusi nè in mala fede? L'unico vero risultato degli avvenimenti vissuti, dovreb· be essere proprio questo: di non essere stati inutili: di non avere lasciato gli uomini uguali a quelli di prima. O ingenuità I Uno degli aspetti più precisi di questo conflitto, sm da principio, fu l'impegno risoluto di entrambi i conten– denti di non accontentarsi di una soluzione equivoca e provvisoria, ma di esigere una conclusione definitiva. Era un giudizio di Dio, e doveva risolvere una contro– versia: e l'ha risolta. Doveva non lasciare dubbi. Non ne ha lasciati? Pro1>rio per l'aspetto di dilemma, di alternativa che il conflitto prese al suo scoppiare, nessuno dubitò che si trattasse sopra lutto di un conflitto ideologico, di una guerra di religione. Così fu veduto, più che altrove, in Ctalia: e qui prima che veduto, fu preveduto dall'antifa– scismo. L'aggressione germanica questa volta era anche più proterva e sfrontata' che nel 1914; e dall'altra parte, nel campo delle democrazie, mancava anche quel residuo di subdola cautela sotto la quale nel 1914 fremeva la mentalità aggressiva degli interessi imperialistici e dello spirito di révanche, che allora fecero l'Intesa largamente responsabile del conflitto. L'antagonismo dei metodi e dei regimi infiné questa volta era più disperato e mici– diale che mai. Non c'era mai stato nella storia (cer– chiamo pure, non troverete un esempio), non c'era stato un caso di cosi assoluta incompatibilità politica, sociale, morale tra popoli in conflitto. Ebbene, accade che oggi il sentir parlare di conflitto ideologico, di guerra di principi e via dicendo, fa s·or– ridere, e acido. Dobbiamo compiere uno sforzo per con– vincercene. Dobbiamo ricordarci che le aspirazioni, e più ancora i successi religiosi, hanno sempre aperto il varco a tutt'altri interessi. Non c'è bisogno di risalire fi– no alle Crociate o ai conflitti luterani o alla guerra dei trent'anni. Ohimè I Basta che pensiamo alla Rivoluzione francese e al Buonaparte e ai moti del '30 o del '48. Die– tro gli entusiasmi ideologici, sempre si accodarono i pro– fitti territoriali, sociali, economici. E allora? Allora, l'errore consiste nel fare di quegli accadimenti delle intenzioni, di quei risultati dei programmi, o ma– gari di quell'inconscio una sapiente malafede. Gli egoi– smi oggi scatenati nel man.do non erano tanto i presup– posti del conflitto, come sembrano, quanto ne sono i re– sidui, gli effetti. Pare ingenuo l'affermario. Eppure l'avara intolleranza che oggi trionfa non nasce dall'l!uforia della vittoria, ma dalla stanchezza e dalla paura. Enfin nous avons vaincu la guerre/ - dice il bravo francese d'oggi. Oppure parlerà, con uguale improntitudine, di e pugna– lata alla schiena>. Ma come nel 1918, e con animo ben più sordido che nel 1918, non è l'alterigia del successo (non diciamo della vittoria) che lo ispira, nè l'intransi– genza della vendetta (non diciamo della giustizia), ma Io· spavento del domani. E' come se dicesse: non ci sen– tiamo in grado di essere generosi. Non possiamo arri- schiare di essere lungimiranti. Non è più il sentimento del dominio e della missione, e nemmeno del risenti- . men lo, che prevale, ma il complesso del pànico e della garanzia. Peggio. E' la ricerca 'di una condizione di van– taggio, di un premio di partenza, di un compenso alla pigrizia nella prossima gara di civiltà, sotto forma di ba– cini carboniferi, di flotte mercantili, di centrali idroelet– triche, di alleanze proficue, di situazioni strategiche, di · privilegi politici e di tanti altri titoli di s~ambio, infine, da barattare e da realizzare in benessere gratuito per il pigro cittadino. Non è questo ciò per cui hanno fatto la guerra, ma è questo che vogliono ricavare dalla guerra. Siamo quasi portati a vederla, la guerra, come ce la mostravano i dittator1, un atto nobile e bello, un'iniziativa generosa: il vento che salva le acque del lago dall'imputridire, di Hegel, l'igiene del mondo di Mussolini. Sappiamo che cosa sta sotto a quelle esaltazioni, e quale è la realtà di quei macelli. Rimane tuttavia il fatto che la guerra è sempre, sotto un certo aspetto, migliore della pace. E non perchè l'ipocrisia è migliore del cinismo: proprio perchè il momento della solidarietà e del sacrificio è migliore dell'egoistico « particulare >, degli interessi e delle garanzie. Si tratta di due situazioni differenti, non nna vera e una falsa, ma entrambe vere. Sincera la guerra di reli– gione e sincero il mercato delle vacche. Non vorremmo portare gli uomini ad abolire la categoria dell'utile e a trasformare la politica in altruismo e abnegazione, che significherebbe poi debolezza immo.rale. La moralità po– litica (ma in sostanza qualunque. morale) è il benessere completo, l'interesse lungimirante. ·La sua regola in guer– ra è l'intransigenza, in pace il compromesso. Essa serve sempre degli interessi particolari, ma con un metro di– verso. L'iniziativa politica opera in circostanze che sono quel che sono. Di una Europa balcanizzata niénte è più legittimo e più equo, per i grandi stati-continenti, che farne un sistema di stati cuscinétto o di terre-di-nessuno, su cui avanzare il più possibile le proprie frontiere stra– tegiche, per sganciarvi domani le proprie bombe ato– miche. I tre Grandi a Jalta e a Potsdam hanno tagliato nel vivo dei territori, spostato i confini, ingrossato e rac– corciato le provincie europee, semplicemente perché l'Europa non esisteva. I suoi stati erano pedine ciascuna di un giuoco, ed era giusto che i giuocatori le mano– vrassero, le bloccassero, le « soffiassero>, come a dama. Niente di più deleterio che il ritrovarci, dopo tante spfferenze e tante speranze, in uno stato d'animo esi– tante, dubbioso, spaesato. L'altro giorno, riordinando la mia biblioteca, tra le vecchie letture ritrovai due libri fa– mosi: due critiche della nostra civiltà, delle quali negli ultimi anni scorsi tutti hanno sentito parlare. Uno era il Tramonto dell'Occidente di Osvaldo Spengler, l'altro la Crisi della civiltd di Huitzinga. Entrambi facevano il pro– cesso di questa nostra civiltà occidentale. Naturalmente partendo.da punti di vista opposti: l'uno da quella men– talità tedesca perturbata e perturbatrice; frutto di un tar– do, falso ed esaltato romanticismo, che ci ha portato al– l'attuale sangue e rovina; l'altro da una mentalità di pre– dominio razionale e di tolleranza, di erasmiano umane– simo, ma immobile e nostalgico. Entrambi convenivano nel denunciare gli stessi sintomi di decadenza d_el mondo prebellico: la illusione grossolana della tecnica, il senso tutto materialistico del progresso, l'incoscienza puerile delle masse che e giuocavano > sul ciglio di un abisso. Avevano ragione? Spengler e Huitzinga criticavano con sfiducia questa nostra civiltà occidentale e ne prevedevano il declino, proprio quando essa era tanto vigorosa da prepararsi a schiacciare ogni altra come barbarie. Perchè la civiltà nazista è stata appunto l'anti-Europa, l'anti-Occidente. In

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