550 RIVISTA POPOLARE l'arte da pastorella e idoleggiò tutte le forme con venzi0nalmente affettate e stucchevolmente false della vita: l'arte diventò dilettantismo. Il rivolgi mento profondo della coscienza ci vile e politica operatosi via via nella seconda metà del secolo XVIII, ritemprò gagliardamente ia letteratura e l'arte, richiamandole a schietta sincerità di forme e a forte dignità di contenuto. Il Parini, l'Alt-ieri e , poscia, il Foscolo, schiusero il classicismo alle tante voci nuove, che, or argute e sdegnose, or fiere e rug· genti, or meste e pensose, echeggiavan pel mondo e scuotevan le anime e preparavan l'avvenire. Il Parini, riformista, mirò sopratutto a rinnovare l'individuo in Italia; l'Alfieri, rivoluzionario, attese a rinnovare il cittadino; il Foscolo, uomo libero, crea una nuova forma di poesia civile e, che più monta forse, una nuova istituzione : l'esilio. Il Romanticismo, in sostanza, non espresse idee o principii nuovissimi. Qnando, infatti, i romantici asserivano che l'arte debba imporsi come suo compito l'imitazione del vero, e tendere, come scopo, all'ammae stramento per via del diletto, non ripetevan essi teoriche già vecchie di secoli? La parte veramente viva, origina.le, imperitura. delle dottrine romantiehe è in quella solenne affermazione del legame ìndissolubile onde la contenenza è avvinta alla forma e sopratutto, « della necessità d'un'arte che scaturisca dal!' intimo dell'anima e viva del vivo e tragga norma e spirito dal veramente sentito e dal veramente pensato». Alessandro Manzoni confermò stupendamente questi principii della scuola romantica, meglio che con le teoriche, con gli esempi di mirabili opere, note a ogni italiano di pur mediocre cultura. Alle dottrine fondamentali del romanticismo infuse il sacro fuoco dei suoi ideali patriottici, morali e umanitarii Giuseppe Mazzini, che, pur attingendo ai remantici il concetto che l'arte debba mirare sopratutto al perfezionamento interiore dell' uomo, lo ampliò ed estese, come volea l'indole della sua. mente, ad una visione cosmopolita della letteratura, corrispondente ai suoi principii filosofici e re!igiosi. L' arte - diceva egli - ha suo fondamento nella verità universale interpretata dal genio; la poesia, se vuol trovare materia sempre varia e potente d'ispirazione, deve volgersi a rappresentare la vita intesa nella sua universalità e il moto collettivo dei popoli. L'arte è un e sacerdozio di educazione >. L'ideale della rivoluzione, dell'indipendenza e della unità informa e ispira via via la letteratura della prima metà del seçolo XIX. Il sentimento della patria italiana si può dire non siasi mai spento nelle lettere nostre, anche nei secoli più tristi di nostra storia, vuoi che si esplichi - ch'è il caso più frequente - in forma d'affannoso rimpianto dell'antica gloria e grandezza, vuoi che assuma maniere e fattezze ed espressioni un po' meno vaghe e indeterminate. Il primo poeta, pare, che formulasse più nettamente d'ogni altro il concetto dell'unità politica d'Italia fu, nella seconda. metà del Trecento, Fazio degli Uberti, un pronipote del grande Farinata, l'autore del Dittamondo, il quale seppe1 fortunatamente, elevarsi dalla morta gora di quel suo squallido poema geografico, a una bella e nobile produzione lirica. in cui cantò efficacemente e sentitamente l'amore e la patria. E quivi appunto egli invoca, per la salute d'Italia, la costituzione d1una. monarchia ereditaria nazionale italiana. Nella più bella di queste canzoni politiche, il poeta fa sì che Roma stessa, in figura d'augusta matrona.- cosi come la rappresentò anche il Petrarca nelle sue epistole ai pon~efici avignonesi e ali' imperatore Carlo IV-esprima quel concetto e lo formi cosi nel commiato: Canzon mia, cerca il tal:ian giardino Chiuso d'intorno dal suo proprio mare, E più là non passare. Il difetto, dirò cosi , d' origine, comune a.lla nostra letteratura della patria, ha tolto ormai a buona parte di essa mo!to del suo int.eresse e, per conseguenza, non poco del suo pregio. Triste verità, ma non inglorioso destino! Tale, intanto, da indurci a pensare e a domandare, non senza sgomento, che cosa l'Italia nuova e giovane abbia saputo so.'!tituire di più alto e nobile e vitale, a quella letteratura d'occasione, che pur validamente ci aiutò e spronò alla conquista della patria. Ahimè, non saprei dirlo altro che accennando a una tomba schiusasi di recente, in cui l' Ita\ia ha visto, fra le lacrime, discendere e sigillarsi per sempre l'ultima, finoggi, delle sue grandi Yoci storiche, Colui che in sè solo incarnò il genio della stirpe italica negli ultimi cinquant'anni. Cos'è rimasto dopo Lui? Non tonca a me di dirlo. Ma giacché ho nominato Giosue Carducci, piacemi di chiudere questa mia cicalata col richiamare brevemente al pensiero dei lettori qua.l concetto avess' egli dell' arte sua il bardo maremmauo , non senza prima aver rilevato - per quel tanto di comune che, se non nell' ingegno, ebbero certo nell'animo i due uomini - ciò che della poesia in genere e dell'opera sua di poeta sentì e scrisse l' Alfieri : profeta questi di novelle età, quagli cantore. Poeta-dice l'Alfieri in un sonetto del 1790-è nome che suona diversamente, a seconda dei vari popoli e delle varie epoche : ora cade, vilipeso, nel fango, ora consacJa l' '-omo all'immortalità. Il giudizio umano , però , non è da tanto da torre o dar corona d'un' arte che col suo divino potere invade le anime dei suoi almi cultori e le sprona ad eccelsi e disusati voli, per le vie del cielo. Può bene il volgo sentenziare sui vuoti e falsi poeti, ignoti al vero Apolio; ma niuno che non sia vate o Iddio s'attenti di sprezzar coloro cui il natio fur01·e costringe a cantare la verità : Ben può sentenza il volgo dar sui vuoti Armoni:osi incettator d' oblìo, Di b1tje pregni, e al vero Apollo ignoti; Ma sprezzar quelli, che il furor natio Sforza a dir carmi a verità devoti, Non l'osi, no, chi non è vate o Iddio. Il natio furore è evidentemente l'impulso naturale, 1 di cui getti l'Alfieri aveva già ben distinti da quelli dell'impulso comandato (Vita, IV, 2) o della vocazione pecuniaria, come poi disse. riferendosi al pao.i!O alfieriano, lo Stendhal (Roma, Torino, 1906, pag. 413). La visione della futura grandezza della patria si spiega ed afferma assieme con la superba coscienza
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==