RE NUDO - Anno X - n. 80 - settembre-ottobre 1979

di musicista che ti obbliga alla re– lazione viscerale, con quella musi– ca e/o quella prosodia martellan– te, che rifiuta la ragione e cerca di– rettamente l'istinto: anche un iper– razionale come me deve ammette– re di averla amata e odiata senza mai fermarsi alla (divina) indiffe– renza. Odiata. E' un po' forte; più che al– tro mi infastidiva, al primo ascol– to, un punk-rock-come-deve-essere, con l'aria di proclamare per la pri– ma volta cose già dette e stradet– te. Morrison, Hendrix, Joplin, per– sino Lou Reed occhieggiavano tra i pentagrammi (John Cale invece c'era davvero, a fare il produttore), un'intricato gioco di citazioni, pro– se ritmiche troppo simili al Dylan 1965 marchio depositato. E c'era il feeling, a palate, fin troppo per me, dava l'idea di essere cercato, costruito, per raggiungere la tensio– ne spasmodica. C'era il dubbio di essere preso in giro, che non manca mai in casi del genere: Janis Joplin si poteva sottoscrivere senza esitazioni, que– sta Smith meno, troppa acqua pas– sata. Così il riconoscerle la vitalità non comune, sentire la forza che c'era nelle canzoni aveva il sapore di un omaggio doveroso, fatto per impar– zialità, se vogliamo, e anche perché nella magra generale non era il ca– so di andare tanto per il sottile. SMITH/ROCK C'è voluta, credo che ci voglia sem– pre con certe persone, un'opera di ascolto paziente per capire ed acco– gliere il molto di buono e il molto d'ambiguo di Patti Smith. Direi, una personalità che marcia a scatti, che è sincera all'estremo un momento, e che il momento do– po è controllata e non si lascia strappare i propri segreti a nessun costo. Troppo personalismo? E co– me spiegare allora che la Patti Smi– th che si, lascia trascinare in un concerto tanto da volare giù dal palco sia la stessa che poi si fa pub– blicità così bene calibrando le let– ture pubbliche di poesie e simili piacevolezze? E' già successo, sono episodi consueti nelle biografie del baraccone rock. E' già successo. Se è lecito immagi– nare un carattere estraendolo da pochi dischi e da qualche foglio di carta, direi che il già fatto è la sua pe:sonale ossessione. « I grandi li– bn sono stati scritti, i grandi detti sono stati pronunciati ... » e Patti Smith soffre di non potersi inven– tare il blues e il rock and roll (« è tutta la mia anima »): le fender le ha già bruciate Jimi, gli orgasmi in pubblico li ha già vissuti Morri– son, l'heavy metal lo hanno già spinto al limite gli MCS. Non c'è che da ripetere. Anche se quello che senti è vero e reale per te, non è che una copia. La cita– zione volontaria, allora, esorcizza quella involontaria; il mondo pren– de atto dell'esistenza di Patti Smi– th, poetessa, e di quello che ha da dire ... Bene o male, il rock è arrivato alla seconda generazione. Tre erano le possibili strade: superarlo, ponen– dosi in qualche modo al di là. Ne– garlo, e suonare come se il rock del passato non fosse mai esistito. Oppure porsi come continuatori della tradizione. Se la prima strada è quella di ri– cercatori molto consapevoli, Eno o Enry Cow, e la seconda appartiene alla più vera New Wave, da Camo– nes a Sex pistols, Patti Smith ha tutti i diritti di essere la massima rappresentante della terza. Una via scelta il giorno stesso in cui aprì la sua carriera discografica, inci– dendo proprio l'Hey Joe di Jimi Hendrix. SMITH/DYLAN Patti Smith e Bob Dylan. Accosta– mento troppo ovvio da una parte, ricco dall'altra di più sottili sottin– tesi. Patti Smith, detto e ripetuto, si richiama ad altri, al rock più spinto, ma il suo vero specchio non può essere che Dylan. Per un moti- RE NUD0/57 vo sopra tutti: non il talento (il ge– nio? una parola grossa!) ma la grande, enorme capacità di ammi– nistrarselo. Leggete le interviste di Patti, le dichiarazioni, le petizio– ni di principio. La « necessità » di vedere Charleville patria di Rim– baud e Parigi tomba di Morrison. Guardate come sa metterle bene in risalto. Come recita con versatile istrionismo la parte del Poeta (« Mi chiamo Patti Smith e sono una poe– tessa »: è nient'altro che Dylan). Ma Patti va anche più in là, si bea più di Bobby della propria cultu– ra, della considerazione dell'am– biente intellettuale. Ripercorre ed oltrepassa la strada dylaniana di quindici anni prima. Quest'amministrazione di sé (del– la propria immagine, e in ultimo del proprio mito), innanzitutto. Poi le parole. La voglia di « trattare » il linguaggio, di rigirarselo, di co– struire edifici folli partendo dal nulla. L'arte dell'accostamento, del– l'omofonia, il ritmo interno dei ver– si. Il piacere della parola, fisico quanto intellettivo, la « rivincita » del significante sul « significato». Con una discriminante: Dylan più fluido, più naturale; Smith più vio– lenta, cattiva nel piegare la lingua al proprio servizio. Forse è la di– versa origine culturale. Dylan vie– ne da Guthrie e dal folk-revival, e– spressività ridotta all'osso, sempli– cità/ efficacia.

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