RE NUDO - Anno VI - n. 37 - dicembre 1975

Inchiesta sullo sfruttamento in sala di registrazione Gli operai della musica Chi suona nei dischi? Uno sente un disco della Mina (mettiamo) e fa: che bella ritmica! che brava la Mina! Già ma. chi è che suona? Coi complessi la cosa diventa anche più complicata, per esempio quattro o cinque anni fa, quando era l'epoca d'oro dei complessi "beat", uno sentiva un disco che? dei Camaleonti o dei Profeti e diceva: ostia come suonano! Ma suonavano veramente loro? C'è gente che da anni nelle sale d'incisione suona per altri, magari anche inven– tando delle cose, degli spunti interessanti, delle sonorità particolari, e spesso non ap– pare neanche sul disco. Anzi magari molti pensano che il complesso x abbia un grande bassista, ma in realtà sul disco il bassista era un altro. Questa è la situazione degli "operai della musica" (operai fino a un certo punto ovvia– mente, perché poi ci sarebbe tutto il discorso su quelli che i dischi li stampano, li imma– gazzinano, insomma lavorano nella fabbrica vera e propria): però come per gli operai anche il loro prodotto è ano– nimo, quando esce una car– rozzeria non c'è scritto che l'ha verniciata Pasqualino Ni– cotra ... Il lavoro stesso non è che sia molto divertente: suonare per roba che non ti interessa, di cui non sai il risultato finale. Ti chiamano in sala e ti dicono: tu devi fare questo "piripì-piripì", ma poi cosa c'è sopra, cosa c'è intorno, come esce il prodotto non lo sai. Oppure ti dicono: senti ci vorrebbe una cosa di questo genere, fammi un'atmosfera più o meno così... Tu inventi l'atmosfera e poi magari il "merito" passa al.produttore o al "maestro". Alcuni diranno: sì, ma al contrario degli operai veri, questi sono ben pagati! Si beccano ottomila lire all'ora per un minimo garantito di tre ore. Il che vuol dire che anche se fanno "piripì" portano a casa ventiquattromilalire ... Già: ma chi le porta a casa? La massa dei musicisti, degli orchestrali degli strumentisti che ci sono in giro, oppure un ristretto numero di persone? Vediamo allora di districare questa matassa imbrogliata e di capirci qualcosa. Siamo andati in giro a chiedere, abbiamo raccolto un sacco di testimonianze di orchestrali, di produttori vari, chiedendo loro di dire le cose che di solito si sussurrano, quelle che "tanto le sanno tutti" e invece non le sa nessuno perché non sono mai state pubblicate. E così ne è venuto fuori anche qualche caso concreto abbastanza agghiac– ciante che visualizza quanto merda sia· nascosta nei ... sol– chi. Anzitutto bisogna distin– guere due periodi: com'era la situazione degli anni '68-'70 e com'è invece oggi. In mezzo c'è stato un processo confuso di sindacalizzazione degli or– chestrali che però ha solo in parte scalfito un modo mafio– so di procedere nato anni prima. Nel '68-'70 si andava supe– rando ormai definitivamente la struttura cantante solista– orchestrina di sfondo: sul fenomeno "gruppi pop" ere- sceva anche un diverso modo di lavorare sul disco, più attento alle sonorità, e agli interventi specificamente mu– sicali (assoli, varianti d'arran– giamento ecc.) Cresceva an– che l'esigenza di dare alla gente un prodotto molto ri– chiesto (la musica 'beat" co– siddetta) che però richiedeva gente capace di suonare la chitarra elettrica, l'organo elettrico, le ritmiche. Non bastavano più i "tappeti di archi" (cioè quando uno tan– to e sotto i violini fanno: iiiiiiiihh). La musica "beat" nasceva però con una impo– stazione divistica: cioè le case discografiche non cercavano ragazzi che sperimentassero, che sapessero realmente suo– nare, che magari si compo– nessero i pezzi, cercava solo, come si diceva allora: "delle facce e una voce". Tutto il resto lo mettevano loro confe– zionato: chi suonava realmen– te, chi faceva i testi, chi le musiche, chi gli arrangiamen– ti. .In questo modo si potevano produrre cinque-sei gruppi mentre in realtà chi suonava era uno. Risparmio di costi e fornitura di materiale "stan– dard". L'80% dei complessi che allora nascevano come funghi erano in realtà delle facciate dietro cui stavano ignoti suonatori convocati dal produttore. Di qui le magre colossali quando qualche complesso andava poi a esi– birsi dal vivo dimostrando di non sapere mettere due note in fila. Allora, dire: faccio musica, magari lasciando la scuola, non era una cosa molto semplice. Non solo non c'era il circuito alternativo, ma non c'era neanche il circuito uffi– ciale che infatti era: Radio– Sanremo-Cantagiro. Per cu·i 35 chi diceva: "voglio suonare", di solito finiva nelle feste studentesche, o in cantina con gli amici e in genere se continuava faceva la fame (davvero). D'altra parte erano proprio questi che imparava– no sui Beatles e sugli Stone, che si prendevano la chitarra elettrica e sperimentavano. Le case discografiche ne aveva– no bifogno, ma dovevano sfruttare la loro debolezza sul mercato e pagarli poco. Allora la paga era sulle 4.800 lire all'ora e, oltre le tre ore fisse, la quarta veniva pagata un'ora e mezza e la quinta il doppio. È tanto? No se si pensa che poi il grano dei risultati lo pigliavano gli altri e che quelli che potevano fare molte inci– sioni erano proprio pochi. E poi c'era un altro sistema (e c'è ancora); quello dei media– tori. Facciamo un esempio che ci è stato raccontato non da questo o da quello per invidia o piccole beghe inter– ne, ma da tutti quelli che abbiamo intervistato. Un caso quindi universalmente noto nel "giro". Parliamo di Detto Mariano. Di lui ci hanno raccontato questo: Mariano per i vari dischi che faceva in Ricordi convocava un certo gruppo di elementi variabili e con loro si metteva d'accordo così: io ti convoco sempre (o quasi), ti pago direttamente e subito, ma (piccolo particola– re) ti pago la metà. Insomma sembra che il Mariano facesse così: le case discografiche allora pagavano gli orchestrali una volta al mese (la Ricordi il 10). I musicisti facevano la fame (pagarsi gli strumenti, girare, mangiare fuori ecc.) e avevano urgenza di soldi. Speculando su questo, gli si garantiva un lavoro "fisso" li si pagava subito, trattenendo

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