RE NUDO - Anno VI - n. 37 - dicembre 1975
18 Politica culturale del PCI: lo stabile di Torino Fin dall'indomani del 15 giugno, ci si domandava con un certo interesse per molti pieno di aspettative, cosa sa– reb_be cambiato nella politica culturale del PCI. Cosa avrebbe voluto dire, per esempio, passare .alla ge– stione a livello regionale o di comune, di istituzioni, orga– nismi culturali vari, teatri sta– bili ecc. Fino ad allora l'e– sempio dominante e rassicu– rante era Bologna: una conduzione alla «·svedese» aperta, apparentemente, anche a incursioni sulla sini- stra. A Bologna, si diceva, c'è la nuova galleria d'arte mo– derna che ospita materiali non certo ortodossi rispetto alla linea fino a ieri dominante (realismo socialista e affini nazional-popolari), nel re– parto audiovisivi ad esempio s'erano viste cose su occupa– zioni delle case, documenti addirittura cinesizzanti, e non sembrava che tutto questo fosse solo «estetica"· Anche il rapporto coi quartieri sem– brava sempre contenuto, im– portato dall'alto, ma co– munque tale da permettere incursioni provocatorie esterne. In Lombardia si pensava: anche qui il PCI non potrà più limitarsi alla gestione dei ba– racconi del Festival dell'Unità, magari la situazione del Pic– colo Teatro si smuove, magari la gestione regionale demo– cristiana viene intaccata, ma– gari si aprono degli spazi che per quanto riformistici e irri– sori siano comunque occa– sione pèr « tirare a sinistra"· Cosa è successo allora, cosa sta succedendo? Facciamo un caso, un primo caso, abba– stanza illustrativo: lo Stabile di Torino. Su che basi il PCI ha «corretto" la linea cultu– rale (o si propone di farlo) dell'ente? Vediamoci con at– tenzione due documenti inte- ~ .:.,_i ressanti: un'primo documento . ,......_,_ ~ul problema del decentra- ·.,-~ ::· ,. ento, un secondo sul pro- ' .,, ' gramma di lavoro di un gruppo specifico (il gruppo T.S.T. = Gruppo teatro stabile torino) che dovrebbe rappre– sentare la cerniera tra teatro e quartieri. Questi due documenti hanno avuto una prima redazione prima dell'estate, e una se– conda dopo l'estate in prepa– razione della conferenza che presentava il programma an– nuale dello Stabile. Essi rap– presentano una contestazione neanche molto implicita, della linea Trionfo, attuale direttore dello Stabile. Ma più che per questo aspetto, che co– munque fa avvertire in ten– denza non troppo lontana, alcuni smottamenti e possibili ricomposizioni dirigenziali allo Stabile, il documento ci interessa come esempio, come «spia» di un atteggia– mento verso l'intervento cul– turale nella città che per ora non si è ancora definito nel PCI come linea nazionale, ma che sta cominciando a mar– ciare in alcune significative situazioni locali. Il primo documento esordisce n una definizione di « de- centramento" data ormai per assodata: Il problema è, in linea di mas– sima, risolto, almeno dal punto di vista teorico, Agli Enti pubblici e cioè al Co– mune, alla Provincia e alla Regione, è da attribuire, per riconoscimento oramai una– nime, la responsabilità di un intervento programmato per la costruzione di spazi di centri associativi di case della cultura polivalenti, in grado di fornire le condizioni strutturali di una nuova aggregazione sociale. Ai comitati di quar– tiere ed alle organizzazioni di base tocca poi la responsabi– lità di stimolare ed esprimere lo sviluppo di un'autonoma domanda di cultura da parte della popolazione. In altre parole: dall'altro si provvede alle strutture, e sempre dall'alto (ma un alto più basso, a livello di quar– tiere) si «media» cioè si sti– mola la base, la « popola– zione», a chiedere autonoma– mente cultura. Quale? Quella naturalmente già preparata al centro. Mirabile procedimento dialettico e mirabile il ruolo di funzionariato (che poi di fatto già disordinatamente hanno) assegnato ai consigli di quar– tiere che diventano in questo caso poliziotti della cultura. Non si pensi che questa è una polemica gratuita tanto per tirare merda in faccia al PCI: quando si dice che bisogna stimolare la autonoma do– manda ecc. si ha una conce– zione delle masse ( qui come «popolazione») come d'un gregge brutale o d'una serie di cani pavloviani cui dare scariche elettriche perché di– mostrino barlumi di intelli– genza naturalmente nella di– rezione già prefissata dalla «direzione" dell'esperimento. Qui infatti non si parte dall'a– nalisi dei bisogni della gente e della cultura popolare quale di fatto s'esprime nei quartieri ghetto delle metropoli, e di come recepire e «mediare" questa cultura (la qual cosa sarebbe la strategia bolognese-svedese della am– morbidimento delle contrad– dizioni); si parte dall'assunto che nei quartieri la cultura non c'è bisogna importarla, per non farlo in modo « impe– rialistico» bisogna solleci– tarne la domanda da parte della popolazione, in questo caso sempre più scema perché non solo non ha niente di proprio da chiedere o prendere, ma quando chiede qualcosa è quello che dall'alto i funzionari gli hanno chiesto di chiedere. E questa induzione dall'alto della do– manda dal basso è solamente l'aspetto zuccheroso di una politica di fatto che già in fabbrica molte avanguardie hanno sperimentato: la messa a tacere delle voci «diverse» cioè di quelli che chiedono e prendono altre cose. Vediamo infatti come prosegue il docu– mento, che più avanti apre la polemica contro possibili cri– tiche a «sinistra»: Rifiutando il «centro» e riven– dicando ai quartieri una totale autosufficienza, si rifiuta in realtà il momento dell'in– contro tra le classi e le per– sone la ricerca del contatto, la combinazione, l'articolazione e l'effetto moltiplicatore dei rapporti sociali, ai quali in ultima analisi si deve buona parte della cultura e della stessa civiltà. 11Centro è cioè garanzia di interclassismo: il compro– messo storico come gestione di uno spazio culturale si mo– stra come tentativo di in– contro ideologico tra le classi e le persone, il quale incontro (e non scontro e lotta) produ– rebbe la cultura e la civiltà. Non sappiamo in quale testo marxista chi ha scritto il docu– mento abbia reperito tali posi– zioni, invece diffusissime nella lettaratura cattolica. Ma an– diamo avanti e vediamo ap– P.Unto la polemica a sinistra: ~ persino superfluo aggiun– gere (N.B. per il P.C.I. discu– tere a sinistra è sempre « su– perfluo») come esistano oggi posizioni politico-culturali che alimentano questo segrega– zionismo. Alcuni cercano di preservare la purezza minac– ciosa (sic!) della classe ope– raia, accampata attorno alle città, conservandone però anche /'esclusione e l'apart– heid, come garanzia di spirito rivoluzionario. Altri inseguono un sogno pastorale, anzi pa– storizio (una specie di arcadia della fratellanza di gruppo) in una società industriale che tende invece a creare branchi, o nei casi più tranquilli, ar– menti. Entrambi perseguono ed esprimono l'ansia di una palingenesi che dovrebbe at– tuarsi attraverso un cata– clisma più ancora psicologico e spirituale che sociale. Non stupisca la vaghezza di questa polemica. Il lettore in– genuo potrebbe domandarsi: ma di chi o meglio contro chi sta parlando? Perctiè non fa nomi e cognomi che si ca– pisce meglio? Ma lo stile da enciclica papale non lo con– sente, le cose si devono dire indirettamente, non ci si mi– schia mica a far polemica con questo o quell'altro, sennò bisognerebbe essere seri ... Forse si intende polemizzare con la sinistra extraparlamen– tare (« apartheit operaio») e con Comunione e Liberazione («pastorizio" dimenticando che questa gente il pastorale lo usa spesso e volentieri a mò di bastone). Quanto alla concezione della periferia operaia come di un cintura di « accampati attorno alle città» in stato d'assedio, essa scatu– risce chiaramente dalla mente d'un assediato. Sembra che non si colga un fatto: che la cultura borghese esclude la
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