il Potere - anno I - n. 1 - luglio 1970

Luglio 1970 il POTERE potere di,battito potere dlibattlito potere d,ibattito potere dibattito potere sciata al semplice contraddittorio del– le parti tradizionali che solo in appa– renza sembrerebbero le uniche interes– sate. L'interesse obiettivo dell'impresa è_anche mteresse dell'intero corpo so– ciale, come è stato ricordato da un ~cuto giurista: la Magda Rabaglietti 1n una sua opera non ancora sufficen– temente meditata dalla nostra dottri– na; e se l'ordinamento positivo non ne trarrà le dovute conseeuenze la programmazione economie~ resterà inevitabilmente monca e disattesa. Fortunatamente pare che il sinda– cato, seppure in ritardo, abbia colto il significato di una siffatta imposta– zione del problema del potere nella fabbrica: lo statuto dei lavoratori può rappresentare in questo senso una spinta decisiva. SIGNORINI - Io vorrei coaliere da– gli interventi precedenti due 0 punti es– senziali. Il primo è di Schiavetti. Quan– do egli dice che il fenomeno della fru– strazione non è soltanto nella fabbri– ca ma nella società, posso essere d'ac– cordo ad una condizione: che non im– posti i termini del discorso della con– dizione operaia nel modo in cui li ha imJ)ostati, ad esempio, Giolitti, il qua– le m smtes1 ha detto che per il lavo– ratore è inutile sperare di ottenere soddisfazione nel lavoro all'interno della fabbrica, la quale non può venir meno ad una sua logica; deve operare per trovare il proprio soddisfacimento all'esterno di essa. Gorz, al contrario, rileva una cosa a mio avviso molto importante. Quan– do si progetta un macchinario per una fabbrica si tiene conto di tutti i fat– tori meno uno: l'uomo. Credo pertanto che il discorso sul potere del lavoratore in fabbrica pas– si attraverso il controllo sui processi produttivi. Il problema è, cioè, come arrivare a far sì che i processi appli– cativi dello sviluppo tecnologico all'in– terno della fabbrica siano tali da te– nere conto che l'operaio come uomo deve salvaguardare e sviluppare in o– gni momento della sua attività le sue più profonde esigenze psicologiche e spirituali. Il secondo punto lo ha proposto Peschiera quando ha espresso conside– razioni che andrebbero « al di là della proprietà dei mezzi di produzione». Questo fatto è per me essenziale proprio in rapporto alla risposta al punto precedente. Non perché il supe– ramento della proprietà privata possa essere la panacea per la soluzione del complesso problema dianzi esposto co– me di altri, ma perché credo che sia assolutamente impensabile finché nel– la conduzione della fabbrica vige la legge della appropriazione capitalistica del profitto, poco o tanto incidente che sia da un punto di vista quanti– tativo, introdurre in essa le considera– zioni fatte sulla esigenza di eliminare i processi disumanizzanti dell'uomo. Soltanto quando la fabbrica è un bene collettivo esiste la premessa es– senziale per ovviare a questo gravame che si esercita sull'uomo e che pro– prio per essere ovviato comporta un costo economico da pagare ed una di– versa concezione della funzione sociale dell'impresa. E' stato per me significativo che i sindacati inglesi si siano posti in ter– mini operativi il problema della pro– prietà pubblica o privata dell'azienda. I sindacati italiani invece, anche per– ché sono partiti da posizioni di lotta certamente più arretrate, non se lo sono ancora posto. Capisco che il problema sia tutto posto in chiave di critica negativa al sistema attuale, ma allora osservo: o si esprime un modello diverso a cui riferire la discussione, e di cui n1i si descrivano i vantaggi in termini di soddisfacimento di esigenze spirituali e materiali dell'uomo, o il discorso ri– mane utopistico. Cosi: o si accetta di discutere sul sistema industrale esistente, con l'in– tento di modificarlo e di migliorarlo per soddisfare !'esigenze di sviluppo della personalità dell'individuo da un lato e le sue esigenze materiali dal l'altro o non lo si accetta, allora si propone in termini reali un sistema diverso su cui discutere. Se non si fa ciò il discorso per me diventa evane– scente e si chiude; non è possibile infatti parlare dei vantaggi di un sist& ma di cui non si è in grado neppure di tracciare i connotati o di intuirne la struttura. C'èpoi un'ulteriore osservazione su cui desidero soffermarmi: dubito che, da– ta la natura umana, tutti vogliano il potere e che non preferiscano invece delegarlo con tutti gli inconvenienti della delega. Se la mia supposizione è esatta allora penso che non sarebbe tanto da discutere sul potere in fab– brica in termini di partecipazione e di gestione diretta, incompatibile del re– sto con la struttura attuale delle azien– de, bensì in termini di controllo. E' per questa ragione del resto che sono piuttosto scettico sull'autogestione a cui Signorini si è riferito con tanto entusiasmo. Che se poi lui si riferisce all'esperienza di autogestione adottata in certi Paesi (vedi Jugoslavia), penso sia opportuno ricordare che tale for– mula non risponde certo al modello e alle esigenze fino ad ora poste in rilievo da Paparella e da Signorini stesso, in quanto anch'essa legata a certe esigenze di efficienza e di pro– duttività, e quindi a modelli di orga– nizzazione interna del lavoro, contro i cui effetti si levano le lamentele della classe operaia invocando più potere e la possibilità di autogestione. SCHIAVETTI - Le osservazioni di CO· loro che mi hanno preceduto hanno più direttamente centrato il tema del– l'incontro, da cui io invece mi accorgo forse di aver un poco evaso nel primo intervento; comunque, riallacciandomi ad alcune osservazioni fatte, cercherò in questa seconda « manche » di com mentarle e di esprimere al riguardo il mio pensiero. In effetti io credo che il potere in fabbrica non sia un feno– meno riconducibile al regime di pro– prietà dell'azienda; proprietà pubblica o privata, proprietà degli operai o di un singolo, il problema rimane. Ciò a dire che il problema «potere» è insito nello stesso fenomeno aziendale; l'esi– stenza stessa del fatto aziendale se– condo me comporta una determinata gerarchia e, quindi, non può eliminare tutta una serie di problemi connessi alla posizione che si occupa in tale scala gerarchica. Quanto poi a ciò che è stato detto da qualcuno a proposito del sindaca– to, che cioè il sindacato sia uno stru– mento capitalista, nego che esso pos– sa essere così definito. Il sindacato, a mio parere, non è uno strumento capitalista, bensì è un'istituzione la cui esistenza è legittimata dalla pre– senza di una determinata struttura produttiva e da una determinata strut– tura aziendale comune, come già ho ricordato, a tutti i paesi industriali, siano essi a regime capitalista o col– lettivista. L'esistenza di una determi– nante struttura aziendale è quindi la giustificazione dell'esistenza di un sin– dacato che ha materia per discutere e per agire. RAVA li - E' significativo che Schia– vetti abbia affrontato il discorso pro– prio nei termini in cui le poche note confuse che aveva esposto poco prima volevano impostarlo. Infatti o si accet– ta il sistema industriale o non lo si ac– cetta; o si accetta il disegno di svi– luppo capitalistico o non lo si accetta. Ora io dico: la parte operaia non ac– cetta il disegno capitalistico. La parte operaia non accetta il lavoro. E qui, appunto, giustamente Schiavetti diceva che anche le società socialiste hanno una propria organizzazione, fanno fun– zionare in qualche maniera i sindacati. Certo. Tutto sta a vedere se questi sistemi sono realmente socialisti. Questo finché l'impresa è struttura– ta come è; forse un giorno si arriverà a produrre strutturando l'impresa di– versamente e allora il discorso potrà cambiare. Poiché però fino ad ora io non conosco modelli diversi, a parte la Cina di Mao di cui comunque non ho elementi sufficienti per giudicare, il discorso del sindacato strumento capitalista mi sembra assurdo. Il discorso operaio, anche negli Sta– ti Uniti, non è il discorso dell'occupa– zione, non è il discorso dello svilup– po, non è il discorso del maggior lavoro che divide la classe operaia tra occu– pati e disoccupati, che fa si che i di– soccupati vadano a picchiare gli occu– pati e viceversa, ma il discorso ope– raio oggi è quello della divisione col– lettiva della ricchezza sociale, che è quello del comunismo come program– ma di ognuno secondo il suo bisogno. A parte il fatto che a livello sogget– tivo, in certe situazioni avanzate, lo scontro di classe si è avuto concreta– mente: cioè alla uscita dei cancelli Fiat si poteva benissimo parlare con gli operai su certi termini, si vedeva la loro completa estraneità allo sviluppo capitalistico: « Noi di questo sviluppo capitalistico ce ne freghiamo. Noi del lancio sulla luna, degli astronauti ce ne freghiamo ». PAPARELLA - Schiavetti si domanda se il lavoratore è più estraniato all'in– terno della fabbrica o all'esterno del– la fabbrica dimenticandosi che lo «sta– tus» sociale di un lavoratore, al1neno in una società come la nostra, è asso– lutamente determinato all'interno del– la fabbrica. Non solo, ma propone per il superamento della alienazione una prospettiva di tipo consumistico. Accanto a questa proposta avanza anche quella di una riduzione del tem– po di lavoro, il part time, che signi– fica uno sfruttamento più intensivo, una maggiore alienazione anche se per un tempo limitato. Evidentemente con qusta soluzione i rapporti di forza all'interno della fabbrica e la condi– zione dei lavoratori non cambiano. Ravati propone il discorso del vec– chio anarcosindacalismo, cioè di por– tare la spinta salariale al punto in cui il sistema esplode. Queste posizio– ni, che sono state il cavallo di batta– glia dei gruppi minoritari, sono state sconfitte alla Fiat e durante la lotta contrattuale. Il problema del salario se è slegato dalle condizioni reali di la– voro diventa uno strumento di rego– lamentazione dei cicli di sviluppo ca– pitalistici, il volano che regola l'anda– mento del mercato. Esistono pericoli che le lotte per le riforme vengano usate dal capitale per razionalizzare il sistema, ma il sinda– cato è impegnato a dare ad esse con– tenuto e segni di classe, ottenibili at– traverso uno spostamento dei rapporti di forza e di strumenti di controllo e di potere nelle mani dei lavoratori. Un'ultima osservazione all'intervento di Peschiera, il quale fa risalire la posizione di subordinazione della clas– se operaia, e quindi del sindacato, al– l'assetto giuridico dell'azienda che at– tualmente non permette l'espressione delle loro esigenze. Possiamo tutti af– fermare che i rapporti di potere in fabbrica non cambiano solo col cam– biare della proprietà dei mezzi di pro– duzione. E' stata questa una delle grandi illusioni del sindacato degli an– ni '50 al momento dell'istituzione delle imprese a partecipazione statale: si pensava, infatti, che queste aziende di nuovo assetto giuridico avrebbero a– vuto all'interno anche un diverso as– setto produttivo. La lotta contrattuale, se ancora ce ne era bisogno ci ha confermato che la strategia delle partecipazioni statali coincide con quella delle industrie pri– vate e che in ultima analisi in fabbri– ca lo sfruttamento di stato è assoluta– mente identico a quello privato. A questo punto si pone un proble– ma di prospettiva strategica del sin– dacato. Il sindacato deve giungere al controllo operaio dell'organizzazione del lavoro rifiutando l'assetto capitali– stico della fabbrica. Questa non è una affermazione dottrinaria. Le lotte della contestazione dell'or– ganizzazione del lavoro comportano un'elevata coscienza politica ma la ga– ranzia di riuscita in queste azioni sta nell'estraneazione del lavoratore al pro– cesso produttivo. E' un processo difficile tutt'altro che lineare. Ci sono delle remore cul– turali e ideologiche che dividono oggi pag. 5 La Cambogia e il neutralismo LA CRISI CAMBOGIANA PUÒ ESSERE UN MOMENTO RIVE– LATORE DELLE INTE ZIONI DELLE GRANDI POTENZE L A guerra del Vietnam non è fi- nita: è divenuta la guerra del– la Cambogia. Può essere che gli Stati Uniti siano veramente a due passi dalla vittoria: solo questa o– pinione può giustificare il loro ra– pido rovesciamento se non di poli• tica almeno di propaganda. se non di strategia, almeno di tattica. E' possibile che la tensione cino-russa consenta agli Usa di esercitare una durevole egemonia nel Sud-Est asia– tico. Il problema decisivo dell'equi– librio asiatico è altrove: il governo americano lo sa e ne tira le conse– guenze. Gli Stati Uniti hanno sostituito interamente il Giappone nello « spa– zio vitale» che era stato conqui– stato dai nipponici nel 1942. E' pos– sibile che il maggior problema a– mericano nei prossimi anni sia piut– tosto la cogestione dell'ex impero nipponico con il Giappone che non la disputa di esso alla Cina o alla Russia. La tensione russo-cinese ha indebolito i due imperi asiatici ed ha reso possibile alla potenza ma– rittima di esercitare la sua egemo– nia sul sub-eontinente e sulle peni– sole. Un diretto impegno cinese a di– fesa del Vietnam è inverosimile, le stesse organizzazioni sindacali ma esiste ed è innegabile una tendenza egualitaria ali' interno della fabbrica che sta investendo tutti gli aspetti della condizione operaia. Il sindacato deve quindi capovolgere la sua strat& gia. Passare da sindacato di difesa a sindacato di attacco che all' interno della fabbrica organizzi i lavoratori perché essi stessi decidano come e quanto devono lavorare. PESCHIERA - Una brevissima osser– vazione per chiarire ulteriormente il mio pensiero. A medio termine si pone oggi il di– scorso del smdacato a livello della produzione e quindi il problema di un diverso modello di impresa. Ma atten– zione, quando parlo della riforma del– l'impresa 1 io non mi rifaccio all'impre– sa privatistica perché ripeto oggi ana– loghe questioni si pongono alla Schia– vetti come all'Italsider come nell'im– presa pubblica: il problema di fondo oggi è quello della posizione che as– sume il movimento sindacale al livello del fatto produttivo. Non a caso oggi con lo statuto dei diritti i lavoratori già discutono sul piano della fabbrica: con l'abrogazione del 2103 quando si afferma che il pas– saggio di qualifica non sarà più con– sentito in via unilaterale, si fa già un discorso al livello della produzione. Queste osservazioni evidentemente non entrano nel significato dello statuto la cui efficacia, soprattutto sul ter– reno dei rapporti fra movimento sin– dacale e movimento operaio, è ancora da provare. ORSINI - Da questo dibattito emer– gono almeno tre valutazioni comuni da parte di tutti: in primo luogo che la condizione umana del prestatore d'opera all'interno della fabbrica non deve in alcun caso essere subordinata né alle esigenze della produzione e tanto meno alle esigenze del profitto, quindi né a fattori tecnici né a fattori economici; la condizione umana deve quindi avere carattere prioritario nel– !' articolazione di qualsiasi struttura aziendale. Inoltre, la doverosa tu– tela della giusta condizione umana del prestatore d'opera nella fabbrica non deve mai essere strumentalizzata al servizio di una qualsiasi ideologia. Questo è un aspetto rilevante e signi– ficativo: infatti è innegabile che, oggi, si rischia spesso in nome di una qual– siasi ideologia, di utilizzare anziché di servire il lavoratore e di porre i suoi problemi operativi e la sua con– dizione operaia appunto al servizio di visioni precostituite di un certo ordi– ne sociale. Infine mi pare che un al– tro punto rilevante emerso da questo dibattito sia costituito dal riconosci– mento comune della necessità di un controllo collettivo della ricchezza pro– dotta dal lavoro. Sono indicazioni di ordine generale e, se volete, anche ge– neriche, ma forse costituiscono il sug– gello non insignificante che insieme possiamo fare al nostro discorso. soprattutto ora che la sfida poten– ziale al prestigio di Mao costituita da Ho-Ci-Min è venuta meno. Per tutto ciò, abbiamo l'impressione di essere all'ultimo atto della trage– dia vietnamita cominciata nel 1946, tra Argenlieu ed Ho-Ci-Min. Se mai, vien fatto di prendere atto del tramonto del neutralismo, che nel Sud-Est asiatico aveva avu– to il suo punto di lancio (Bandung 1956). Che rimane di quella pro– spettiva? I suoi tre leader - l'Egit– to, la Juguslavia e l'India - sono ormai ben lontani dal neutralismo. Tito è con l'occidente, Nasser con l'Urss: l'India è in una sorta di co– gestione, che può dar solo l'illus10- ne della neutralità. Proprio in Cam– bogia l'estremo avversario del si– stema degli imperi, il generale de Gaulle, aveva giocato le ultrme pos– sibilità della politica neutralistica. Il generale aveva scelto Sihanuk come suo interlocutore-alleato nel puzzle indocinese. La Cambogia sembrava il prmcipio attivo della neutralizzazione del Vietnam. Le cose sono andate nel senso oppo– sto: non è stato il destino camoo– giano a diventare quello vietnami– ta, ma il contrario. Nonostante le apparenze, gli anni '60 sono stati gli anni dell'avanzata degli imperi. Tale processo è stato, in qualche momento, contrastato da qualche tentativo di politica na– zionale, ma alla fine, ha nettamen– te prevalso: al tentativo di autono– mia inglese dei governi conserva– tori, da Churchill a Mac Millan, ha corrisposto il puntuale allineamen• to del governo laborista alle posi– zioni americane; la lunga ed impe– gnata fronda gollista ha ceduto il passo al prudente avvicinamento di Pompidou a Nixon. L'Unione Sovie– tica, per parte sua, ha liquidato i suoi scismi con i mezzi che ben conosciamo e che persino i comu– nisti italiani dicono di deplorare. Il tempo delle nazioni è dunque in certo modo finito: le politiche nazionali possono svolgersi solo nel quadro imperiale, secondo i mar– gini di disponibilità che tale qua– dro permette. Nixon ha fatto appello alla « mag– gioranza silenziosa». Questa mag– gioranza avrebbe probabilmente so– stenuto anche Johnson, se questi non fosse caduto di fronte alle dif– ficoltà interne del partito democra– tico. Non fu una maggioranza na– zionale, anche solo morale, a farlo cadere, ma il fatto che il partito democratico si era dato una strut– tura politica ed un tipo di fisiono– mia globale che lo esponeva neces– sariamente al peso dei gruppi mi– noritari legati complessivamente al– l'idea di un disimpegno totale del– la politica americana dal Sud-Est asiatico. Anche se né Robert Ken– nedy né Mc Carthy rappresentava– no compiutamente tale stato d'ani– mo, pure il peso dei gruppi pacifi– sti ne condizionava atteggiamenti e linguaggio e divideva radicalmente il partito democratico. Per queste ragioni, è forse pos– sibile che Nixon si trovi di fronte difficoltà minori di quelle che John– son ha dovuto sostenere e possa affrontare con le mani libere sia le università nel paese che i vietcong sul terreno. Non è ancora chiaro quale sia la contropartita che gli americani han– no accettato di pagare ai sovietici per la loro non interferenza di fron– te all'estensione della guerra. E' co– munque certo che il problema ci– nese pone in primo piano per l 'U– nione Sovietica la sicurezza euro– pea. In questa prospettiva, di cui il problema del Medio Oriente è in fondo una parte, sono possibili ri– percussioni europee e mediterranee dei fatti cambogiani. Un diverso assetto dell'Europa è la condizione della sicurezza russa in Asia. Da questo punto di vista, la crisi cambogiana, può es&ere veramente un momento rivelatore delle inten– zioni dei « grandi ». Sergio Romano

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