scoprendo ed odi:ando ogni sospecto, poi darsi a gara a meditare amore, quei sguardi, quei suspiri, quello amore, quel presentarci or lieti, or pien' di crucci quel senza fine in noi vano sospecto, quei furtivi e coperti cenni e riso, quel pregar tanto l'amorosa fede, quel' arossire e impalidir di sdegno, e quel pentirsi d'ogni strac[c]o sdegno arme furono e lacci, con che Amore mi prese e vinse servo a tanta fede. Piansi più anni i miei e gli altrui crucci, adorando quell'occhi, e labbra, e riso; onde, oimè, spesso in noi ardeo sospecto. Ma ove quivi in me grave sospecto o pensier duro alcun premeami sdegno, un lieto salutare, un dolce riso finiva ogni tristezza; ed ora Amore mille sospecti in me con sdegni e crucci in un momento aduna, e cresce fede. Quanto io più ardo, l'amorosa fede più sente, ma men cura, ombre e sospecto; e son qui fiamme li passati crucci. L'eterno mio dolore e l'altrui sdegno qual maggior fanno el mio tormento! E Amore, aimè, poi quivi non prestami un riso. Lungi da gli occhi onde quel dolce riso in me nutriva fede infra 'l sospecto, piango mie sdegno e castigo i mie' crucci. Sono intervenuto in due occasioni sul testo edito da Gorni; innanzitutto al v. 26 preferisco, come del resto suggerisce lo stesso studioso in una nota, leggero duro e non dur o (né tantomeno duro o), in quanto mi pare che sdegno possa essere oggetto, non ulteriore soggetto, di premeami (che, d'altra parte, potrebbe anche leggersi premea mi'). Sono, difatti, il grave sospecto e il pensier duro a determinare, nel poeta, lo sdegno, così come, antiteticamente, il lieto salutare e il dolce riso della donna 'finiscono' ogni tristezza. Nel congedo, poi, al v. 37 ho espunto la congettura dello studioso (che legge: «Lungi da gli occhi, [Amore], onde quel riso»), preferendo ripristinare la lezione effettivamente leggibile nel codice. Sembrerebbe difatti vero, a lume degli offici prestati dalla metrica alla filologia, che la scomparsa di una delle parole-rima andrebbe comunque 280
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