di patrimonio che riguarda questa attività artigianale. Ma, dei tre documenti di cui vi avevo parlato all'inizio, solo sui primi due ci siamo soffermati: la procura e la donazione. Rimane il terzo, il testamento. Vediamolo ora. Il 17 aprile 1739 FrancescoVezzi, il padre, manda a chiamare un notaio e gli consegna il suo testamento olografo. Il testamento si apre con la richiesta di molte S. Messe in suffragio, dispone elargizioni benefiche, e passa quindi alla destinazione del patrimonio. Questo viene lasciato ai figli maschi del figlio Giovanni. Che non ha figli Jllaschi bensì quattro ormai adulte figlie femmine e una moglie ormai troppo cagionevole di salute per partorire ancora. Si aggiunge che in caso di mancanza di figli maschi, i beni passeranno interamente al Pio Ospitale della Pietà. Che riceve quindi l'intero patrimonio di Francesco Vezzi. Ma, si potrà obiettare, c'era pur sempre quella donazione, fatta in vita dal padre Francesco al giovane figlio Giovanni. Ma basta leggere il documento perché la natura della donazione avvenutaproprio nel momento del maggior impegno del figlio Giovanni nella fabbrica di ceramiche, diventi il punto chiave tra la procura e il testamento. Con la donazione, Francesco divide l'intero patrimonio dalla parte impiegata nella fabbrica, giusto nel momento, cinque anni dopo la procura generale, in cui il figlio Giovanni si impegnava economicamente assumendo i più esperti artigiani e l'arcanista Hunger per dar vita alla fabbrica, servendosi quindi come garanzia di tutto l'insieme di «affari» che la procura gli permetteva di trattare. La donazione del padre giunge a stroncare la sua attività, a sottrargli il patrimonio che gli era servito da garanzia, e a porlo dinanzi al fallimento. Giovanni non vuole rinunciare alla fabbrica ed esita. Il padre intromette amici potenti e lo stesso Procuratore di Venezia perché obblighino il figlio ad «atterrare» la fab31
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