Il piccolo Hans - anno XVIII - n. 70 - estate 1991

brerà superflua nel proseguimento di questa nota.) [...] Forse quell'assenza di talento, quel buco nero che si spalancava nella mia testa quando ricercavo l'argomento dei miei scritti futuri, era a sua volta una semplice illusione senza consistenza, e sarebbe svanita grazie all'intervento di mio padre, che sicuramente aveva convenuto con il Governo e con la Provvidenza che io sarei stato il più importante scrittore del mio tempo. Convinzione confortatrice, incapace però di resistere fino in fondo: La mia vita effettiva[...] mi appariva[...] come parte di una realtà che non era fatta per me, contro la quale non c'era possibilità di ricorso[...] Mi sembrava, in questi momenti, di esistere nello stesso modo degli altri uomini, che sarei invecchiato, che sarei morto come loro e che in mezzo al mucchio sarei stato semplicemente uno dei tanti che non hanno attitudine allo scrivere, qui n'ont pas de dispositions pour écrire. Ainsi, découragé, je renonçais à jamais à la littérature [...]. Questo passaggio del romanzo è rimarchevole, ai fini della mia nota, almeno per due buone ragioni. Esso ritrascrive, in qualche modo, condensandolo in poche righe, il meccanismo parafrenico di cui si parla in una pagina freudiana, nell'Introduzione al narcisismo: il ritiro della carica libidica sull'Io, il delirio di grandezza («sarei stato il più importante scrittore del mio tempo[...]»), il sopravvenire dell'angoscia di fallimento... Ma c'è qualcosa d'altro, e di più singolare: tale delirio di grandezza sulle proprie capacità e sul proprio futuro entra in rapporto con un elemento di fantasia parentale, l'onnipotenza della figura paterna, capace di sopraffare ogni difficoltà - elemento che sarei tentato di chiamare 107

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