Il piccolo Hans - anno XVIII - n. 70 - estate 1991

Il piccolo Hans rivista di analisi materialistica 70 estate 1991 Virginia Pinzi Ghisi 5 Il perverso e la scimmia del genio: elementi di etica Virginia Pinzi Ghisi 15 La favola dell'eredità (note sul padre, sulla trasmissione e sulla tecnica) ]orge Canestri 33 Note sull'inibizione Silva Oliva matematica /stvdn Hdrdi 84 Erogeneità della mano, aggrappamento e disegno, secondo le ricerche di Imre Hermann Giuliano Gramigna 106 La questione del genio: Marcel diventa Marcel Stefano Agosti 121 L'enunciazione narrativa derealizzante: da Manzoni a Gadda e da Stendhal a Svevo Ugo Volli 145 La voce dell'attore: tecnica e presenza Giovanni Cacciavillani 154 Pensiero paleologico e pensiero poetico Anna Maria Accerboni 176 La psicoanalisi come destino culturale ebraico STANZE Annalisa Allazetta 207 Visione degli angoli. Effetto di bordo e sistema P-C in relazione al lavoro dell'inconscio TOAST PER e.e. William Xerra 218 Poema-flipper Corrado Costa 221 Laocoonte Virginia Pinzi Ghisi 222 L'azzardo e la tecnica

Il piccolo Hans rivista di analisi materialistica direttore responsabile: Sergio Finzi comitato di redazione: Sergio Finzi, Virginia Finzi Ghisi, Giuliano Gramigna, Ermanno Krumm, Mario Spinella, Italo Viola a questo numero hanno collaborato: Anna Maria Accerboni, Stefano Agosti, Annalisa Allazetta, Paolo Bollini, Rossana Bonadei, Giovanni Cacciavillani, Jorge Canestri, Corrado Costa, Sergio Finzi, Virginia Finzi Ghisi, Giuliano Gramigna, Istvan Hardi, Ermanno Krumm, Silva Oliva, Mario Spinella, Italo Viola, Ugo Volli, William Xerra. redazione: Corso Matteotti 1/A, 20121 Milano, te!. (02) 794515 editori: Moretti & Vitali editori, Viale Vittorio Emanuele 67 24100 Bergamo, te!. (035) 239104 abbonamento annuo 1991 (4 fascicoli): lire 50.000, estero lire 75.000, e.e. postale 11196243 o assegno bancario intestato a: Moretti & Vitali, Viale Vittorio Emanuele 67, 24100 Bergamo registrazione: n. 170 del 6-3-87 del Tribunale di Milano coordinamento editoriale: Rodolfo Montuoro fotocomposizione e stampa: Grafitai, Via Borghetto 13, 24020 Torre Boldone (BG)

Il perverso e la scimmia del genio: elementi di etica Un giovane viene da me alcune volte. Quello che mi racconta è la storia di una casa e dei suoi inquilini. Ospite di due suoi amici, uno dei quali musicista, riesce in brevissimo tempo a scacciarli di casa, a insediarvisi, e addirittura a ottenere dal proprietario, che non conosceva, un nuovo contratto a proprio nome. A questo punto il giovane abbandona per sempre lo studio dell'analista, ma racconta in giro di aver fatto un 'analisi didattica e organizza convegni di psicoanalisi. Un altro ha avuto un grande legame, un legame «d'amore» con un amico, A., un legame che gli serve a bilanciare i rapporti con le donne con cui a fatica mimetizza la propria sostanziale impotenza. Questo legame dura negli anni, finché A. riesce a raggiungere una posizione "invidiabile". Allora, con il pretesto di essere lui oggetto di insostenibile invidia, rompe con A., ma incomincia a recarsi nella città dove vive, e riesce a occuparne il posto: si apre una strada·nel lavoro di A. e lo soppianta come nuovo «amico di famiglia» nella casa di una collega, intreccia con la donna, che in realtà disprezza, una «intensa relazione intellettuale», gioca con i bambini. I due giovani che ho mandato in avanscoperta hanno 5

una funzione. Sono messaggeri. Non solo delle menzogne che necessariamente diramano, ma di qualcosa che la psicoanalisi ignora. Le perversioni che sono state finora oggetto di studio sono attività solo in alcuni casi riconducibili a strutture perverse, mentre al contrario ci sono moltissimi perversi che non appaiono dediti né alla necrofilia né alla pedofilia né ad alcuna di quelle che erroneamente si ritengono «forme estreme dell'amore». In realtà, ci sono pedofili che non sono perversi se non limitatamente a una delle loro attività, mentre ci sono perversi dalla vita illibata che esercitano in ogni più piccolo atto della giornata la pedofilia e la necrofilia. Se mettiamo a confronto due opere del Marchese di Sade, le 120 giornate di Sodoma e l'Adelaide di Brunswick, dovremmo dire che la prima è per eccellenza la rappresentazione della perversione, mentre la seconda, di uno stile tuttaffatto diverso, è un libro pio per niente attribuibile a Sade, che narra la storia di una moglie virtuosa a torto accusata. Invece, le 120 giornate di Sodoma espongono un catalogo di perversioni che proprio per la sua chiarezza e precisione, per le dichiarazioni di intenti e la rispondenza a un programma non individuale ma collettivo, non dice nulla sulla figura del perverso. Questa avanza, innocente e ingiustamente colpita, con le femminili grazie di Adelaide, di cui nulla si sa, né progetti, né intrighi, i sospetti vengono respinti con sdegno, le conferme vacillano sotto l'invocazione di un destino avverso. È solo una nota posta dopo la parola fine a dirci che cosa è la perversione: il personaggio di Adelaide era nella realtà talmente spregevole da indurre l'autore a cambiarlo completamente, a presentarlo in modo del tutto diverso. È dunque a opera compiuta, che un particolare trascurabile e posticcio come una nota ci dà la chiave di lettura 6

di tutto il testo. A opera compiuta, quando un giovane perbene ha soppiantato un musicista, ha sostituito l'analista, ha tradito l'amico, ma ciò che palesemente organizza sono cose serie come convegni di psicoanalisi e i suoi giochi sono innocenti come quelli dei bambini, a opera compiuta è possibile rileggere la trama che ora appare delittuosa. Se le vittime delle 120 giornate di Sodoma sono contabili e appaiono tutte nelle somme finali, il numero di vittime che il vero perverso lascia sulla sua strada sono incalcolabili e ignote. Il fatto che sia una nota fuori testo a rivelarci la nota falsa della trama perfetta ha uria rispondenza con quanto avviene in analisi. Spesso è un fatto della realtà che viene a inserirsi e a spezzare quasi il discorso analitico, a rivelare all'analista quanto il disagio di un discorso che scivola sulle associazioni già gli segnala: una morte, che è quasi un omicidio, un atto violento, mascherato da giustizia, qualcosa che però succede a lato, a un conoscente, a un familiare, e che tuttavia ha con il soggetto in analisi un rapporto ormai inequivocabile. Così la figura vuota del perverso che non ha nulla di proprio, perché niente di proprio viene messo in gioco, si riempie della vita, della morte, del destino di altri. Il perverso non ha altra storia che quella delle sue vittime. Tuttavia la sola vittima che egli presenta in analisi, quella che lui mima, se stesso, scimmia su cui invita a piangere tutte le lacrime, ci dice come nasce un perverso. La scelta della perversione avviene al posto del luogo della fobia, quel «luogo» che ho così chiamato perché il bambino all'età di circa quattro anni risponde con il tracciato di una mappa abitata da un animale e tagliata da una barriera, all'angoscia che gli suscita il primo rapportarsi alla sessualità del padre e alle questioni sull'origine. Il luogo della fobia è così un primissimo piano di difesa, e in questo senso se lì vi si struttura il soggetto e vi nasce il pensiero, un pensiero alto, nientemeno che, a quattro 7

anni, una teoria sull'animato e l'inanimato, il vivente e il morto, esso può anche rappresentare l'avvio di un eccessivo lavorio alle costruzioni di difesa, l'avvio a una nevrosi; ma è anche il luogo in cui il bambino ristabilisce delle distanze, dei dislivelli, delle barriere che gli impediscono una posizione incestuosa. Il mancato posizionamento di questa barriera apre a un possibile legame con il genitore di sesso diverso o anche del medesimo sesso, ma in entrambi i casi per il maschio il raffronto con il godimento del padre lo induce ad assumerselo. Allora possiamo dire che quando in analisi il perverso parla di una propria vittima assumendone su di sé la parte, parla davvero di sé nella vittima attribuendole il potere che lui si è assunto del padre. Tutto questo è assai prossimo alla psicosi. Per lo psicotico non c'è stato luogo della fobia, non c'è stata quella che ho chiamato prima rappresentazione esterna dell'apparato psichico, ma la differenza che si pone riguarda, potremmo dire, l'etica. Quando nasce il pensiero e nel luogo della fobia si affacciano le prime questioni «teoriche» in relazione all'angoscia, la distinzione tra animato e inanimato e tra vivente e morto raggiunge lo psicotico, solo che manca per lui l'oggettività, l'estraneità, la distanziazione, la sicurezza della distinzione. Lo psicotico arriva a elaborare una « teoria» al riguardo, ma niente gli garantisce che una categoria non travasi nell'altra. Tanto che, così come quello del nevrotico finisce con l'essere inibito da un sovraccarico di costruzioni di difesa, il pensiero dello psicotico si struttura sul travaso, come se la breccia inferta dal trauma fosse lunga come tutta la possibilità della barriera che manca, e lo psicotico si affannasse a rappresentare, nel delirio, l'assenza di questa, e nella realtà le scansioni, le frontiere capaci di sostituirla. Se dunque il pensiero dello psicotico non ha mancato 8

di essere marcato dalla teoria e soffre di un eccesso di contenuto, il perverso ha scelto di non soffrire. La sua risposta all'angoscia ha comportato il rifiuto di pensare a una distinzione tra animato e inanimato, tra vivente e morto. Riproduce il morto nel vivente e inchioda l'animato sull'inanimato. L'animale del suo «luogo» è un animalemorto. L'apparente choc che ora egli prova dinanzi a qualsiasi animale morto è il richiamo a ciò che ha provato nel proprio « luogo di scelta», ed è ciò in realtà che glielo fa notare e che lo spinge a metterci mano per rianimarlo come un burattino. Necrofilia e pedofilia vengono a coincidere. Il piccolo morto da animare e da scuotere tanto da rispingerlo a morire dovrebbe mettere in guardia dal suo amore per i bambini soprattutto se piccoli e handicappati. Bambini handicappati, psicotici, autistici, feti in gestazione, non sono solo i soggetti che meno possono mettere il perverso sotto accusa, ma quelli che meglio possono occupare per lui il posto dell'animale morto. Inoltre egli può assumerne i tratti di assoluta innocenza, che coincidono con i tratti «infantili» che ama rintracciare nelle donne che frequenta. L'amore per i piccoli come l'amore per l'arte, ecco i nostri due messaggeri che ritornano, sono l'equivalente di un 'eccitazione per il prodotto. Il perverso è immutabile perché è fermo a quando, per la prima volta, ciò che fa soffrire un bambino e provoca la determinazione del luogo della fobia, si è mutato invece per quel bambino che era lui, in eccitamento. Se lo psicotico tende a identificarsi con il prodotto del godimento del padre, e quindi a «soffrirlo» al massimo grado senza difese ed elaborazioni, il perverso ne gode come di un prodotto che assume come proprio anche se niente gli permette di sostenerlo. Così l'eccitazione continuerà a segnare la ripetizione, unita all'impotenza. La produttività del perverso avrà un effetto minimale, 9

l'occupazione del posto del musicista o del ruolo dell'amico di famiglia, non produrrà alla fine veri bambini o vere opere d'arte, ma falsi. Così un perverso simulò, alla morte di un proprio animale, di aver messo incinta la fidanzata, e la mimesi del genio copre l'attività di plagiario e millantatore. Il riconoscimento dei falsi è il problema del perverso, e di qui i suoi legami trasversali con la giustizia. Come un vecchio aristocratico, il perverso ama circondarsi di servi, ma le crepe che si aprono nella copia forgiata lasciano uscire la volgarità della nascita. I rapporti sociali, o gli amori del perverso, sono in genere assai brevi, o durano negli anni nella misura in cui riescono a sostenere l'originalità della copia e non la mettono in discussione. Come l'analisi di un perverso può durare anni, fino a che l'analista non mostra di «non crederci», a quella figura perfetta che gli viene di continuo presentata. Allora, da un giorno all'altro, il perverso abbandona la donna, l'uomo, l'analista, senza però abbandonare il campo: occupandone il posto. Nascono così figure giuridiche curiose: psicoanalisti che sono perversi nella cui storia c'è stato un improvviso abbandono dell'analisi, nascosto o giustificato da un 'incomprensione o un sopruso subito, o la sostituzione dell'analista per trovarne uno che sanzioni la «verità». Inquilini di case di cui fino a poco tempo prima erano semplici ospiti. «Amici di famiglia», istituzione a fianco dell'istituzione matrimoniale, al posto di un amico allontanato. Come il bambino, l'animale, il pensiero, anche quella abitatrice del luogo della fobia che è la Legge viene sostituita da una copia, una lettera morta. Il cùculo, o figlio del cùculo, giacché al perverso preme mantenersi senza responsabilità, che si trova depositato da se stesso ad essere l'uovo estraneo di una finta gravidanza, chemantiene su di sé un carattere «infantile», e rappresenta la statua dal titolo «l'innocenza e la grazia», di10

viene il paladino della giustizia: una falsa giustizia ma fondata su un'antica verità. Dai due piccoli «casi» tracciati all'inizio, apprendiamo dunque una serie di sostituzioni, una produzione di falsi. Un luogo che si occupa, al posto della scomodità del luogo della fobia, una finzione al posto della rappresentazione mancata (il «luogo della fobia» è la prima rappresentazione esterna dell'apparato psichico), grandi eccitazioni al posto di una sessualità che non si regge, uno sguardo all'arte e la messa in atto di forme estreme che parodizzano quelle che in realtà appartengono piuttosto al nevrotico e che l'arte rileva; e infine, in rapporto al pensiero (giacché qualcosa è falsificato proprio nel suo luogo di origine, l'età nella quale il bambino è «teorico» come già aveva scoperto Freud con il piccolo Hans), l'instaurarsi di un finto pensiero. Ciò che per altri comporta uno spazio, che ha origine nel luogo della fobia, si contrae per il perverso nel lampo di un momento. Se rapportiamo questo con la teoria, e la teoria psicoanalitica nasce dalle strutture psichiche, potremmo dire che mentre lo psicotico è innamorato del suo estendersi e cerca di delimitarlo nello studio dell'analista mantenendone però la varietà e la complessità, il perverso la restringe nella folgorazione mentre lacanianamente persegue la mira stessa con cui l'inc è proteso a distruggere l'oggetto, il cui posto è assunto dal manque, una mancanza ad essere. Così veniamo a sfiorare la questione dell'arte. La contrazione nel lampo mutua la genialità. Il pensiero che non si articola sembra sempre lì lì per produrre qualcosa di eccezionale. Ma l'eccitazione è per un prodotto istantaneo, che si riduce a polvere. Piazzato di fronte al genio come al godimento del padre, non ne è terrorizzato come il nevrotico che ne percepisce la faticosa costruzione e poi ne è separato dalla tecnica, ma lo mima, ne assume anche qui i tratti, ne esibi11

sce la solitudine, la grandezza d'animo, il supposto disprezzo per il lavoro. Il lavoro che il perverso disprezza è in realtà lo stesso che ha sfinito il nevrotico, il lavoro della complessità psichica. Ma la mira dell'inc non ammette considerazioni, la scelta viene prima. E la scelta, che rimarrà, è per la «verità». Quel mentitore di professione che è il perverso cresce infatti da un bambino che dice la verità. Che invece di aver paura dello scalpiccìo del cavallo, gode e si eccita della sessualità dei genitori. E questa verità impedisce il formarsi, nel luogo della fobia, come ha impedito la presenza dell'animale, del falso delle teorie sessuali infantili (nascita dall'ano, pene alla madre) e del romanzo familiare (negazione de «i veri genitori»). Dunque ha ragione il perverso quando protesta di non mentire. Vuol dire di non aver mentito. Ma se il perverso ha scelto la verità contro l'etica che sostiene la formazione infantile del luogo della fobia, la verità dell'adulto si appoggia ancora su quell'etica. La falsità delle teorie sessuali infantili che permangono come credenza inattaccabile nell'inconscio dell'adulto, fonda l'etica della verità del soggetto. La verità scelta da bambino per il godimento e la produttività di un istante rende tenace e incrollabile la menzogna del perverso. Se il pensiero nasce collegato alla formazione delle teorie sessuali infantili, come ha messo in rilievo Pinzi, possiamo rileggere le categorie della clinica in rapporto ad esse. La nevrosi è una sorta di superlavoro per reggerle. La tecnica appare così vitale, così importante che l'angoscia che ha prodotto come risposta il luogo della fobia vi si è trasferita e la figura che ho chiamato del «gestore della tecnica» (l'idraulico di Hans o il fabbro di Eric, ma per l'adulto il garzone, l'aiuto, lo specializzato, il competente) si frappone tra il soggetto e l'oggetto suscitando l'inibizio12

ne. La teoria è sopraffatta dal lavorio del pensiero. L 'attrattiva per l'invenzione o per l'originalità parla di una nostalgia per un non vacillamento delle teorie sessuali infantili, per quanto nello stadio iniziale del luogo della fobia si era riusciti a formulare. La psicosi invece è il fallimento totale di un tentativo teorico infantile, e proprio per questo si presenta spesso come un investimento «teorico», che potremmo dire paradossalmente non meno illogico e non meno logico delle teorie sessuali infantili, su tutto ciò che, animato o inanimato, circonda il soggetto. Nella perversione avviene di più. Quelle teorie sessuali infantili che dovrebbero, crescendo, passare al campo dell'inconscio, per esempio la credenza di un pene alla donna, invece di appartenere al soggetto, rifiutate dal bambino con la scelta di godere diventano connotato dell'oggetto. Il soggetto prende il posto dell'oggetto, l'identificazione quello della conoscenza. Il perverso pretende che l'altro sia morto perché lui stesso non ha risposto con una teoria agli interrogativi sulla propria nascita. Il caso dell'uomo che sul prato di San Giovanni Battista alla Creta divorò qualche anno fa i genitali di un bambino, ci dice che lui era quel bambino. L'eccitazione, l'esaltazione nasce dalla volontà di scoprirsi nell'altro, mentre l'altro viene manipolato, succhiato, imitato, derubato, ucciso. La differenza tra animato e inanimato non si è stabilita a suo tempo: ora il perverso si anima dell'inanimato, si innamora del morto, che è lui stesso. Ma il perverso non ci crede. Il meccanismo della favola in qualche modo gli appartiene. Ma nel senso esasperato e caricaturale, di qualcosa che ha sostituito la credenza, e che ora lo isola e lo pietrifica in un rapporto alla nascita, all'infanzia, alla rappresentazione, all'arte, alla morte, alla tecnica, alla Legge, al prodotto e alla creatività, che ci riguarda tutti. In ogni caso, la favola è una storia cruenta, di una na13

scita dalla violenza, di un 'eredità difficile, di cui stiamo per sentire. Virginia Pinzi Ghisi 14

La favola dell'eredità (note sul padre, sulla trasmissione e sulla tecnica) Tutto quanto si sa della fabbrica di ceramiche Vezzi è che fu, nel millesettecento, una delle tre grandi fabbriche italiane, con la Ginori, toscana, e la Capodimonte, di Napoli. Della Vezzi, di Venezia, rimangono pochi pezzi custoditi da musei e da alcune collezioni private. Il marchio porta una V o qualche volta una Ve, che si interpreta per Venezia. Se il marchio viene collegato al luogo di origine piuttosto che al cognome della famiglia Vezzi, tutto ciò che si presume intorno all'esistenza di questa fabbrica parte invece da una vicenda familiare, mentre il luogo stesso di collocazione della fabbrica è assai discusso. Si sa cioè che esistette una fabbrica, che ci furono delle fornaci e persino un negozio in piazza San Marco di proprietà della famiglia Vezzi, ma non c'è nessuna prova che essi fossero realmente destinati a una manifattura di ceramiche. Questi pochi preziosissimi esemplari rimasti e attribuiti alla Vezzi hanno il loro punto di riferimento, l'individuazione della loro origine, di fatto so. lo in tre documenti: una procura notarile, una donazione, e un testamento. Della procura si servì il padre, Francesco, il 15 giugno 15

1719, mentre si trovava in viaggio a Vienna, per affidare tutti i suoi affari al figlio Giovanni. La donazione, effettuata da Parigi cinque anni dopo, il 10 marzo 1724, permise a Francesco di trasmettere al figlio Giovanni la proprietà completa di tutti i capitali impiegati in una certa fabbrica, scindendoli dal resto del proprio patrimonio. Poiché nel frattempo il figlio Giovanni si era valso dei servigi di Cristoforo Corrado Hunger capostipite degli arcanisti, degli artigiani cioè che possedevano in Europa il segreto della porcellana e che aveva già lavorato alla Meissen, e aveva stipulato con lui un contratto il 5 giugno 1720, su questa base, e su una lettera indirizzata alla fabbrica Ginori, a proposito della composizione e dei colori della porcellana, si fonda la convinzione che la donazione del 1724 riguardasse appunto la porcellana e che anche le fornaci e il negozio citati in documento facessero parte di quell'attività, nuova rispetto alla precedente di orafo, del padre. Abbiamo dunque un padre, Francesco, di cui si conosce tutto l'albero genealogico, ascendenti e discendenti, che fu artigiano, specializzato in oreficeria, il quale affida i suoi affari al figlio Giovanni che ha l'idea di trasformare l'attività paterna dal lavoro minuzioso del cesello in quellomanipolatore del ceramista. Che, trovandosi tra le mani una procura generale, non esita ad avvalersi del più esperto del ramo e al quale infine il padre qualche tempo dopo dona, sanzionando col nome del figlio, ciò che il figlio nel frattempo ha creato. In realtà, la questione di una trasmissione, e soprattutto della trasmissione di una tecnica da padre in figlio non è così semplice. Dal giovane muratore toscano che seguo negli anni e che, cinquantenne, rimane sempre giovane, già un po' curvo, ma incapace di prendere una decisione senza il «mi babbo», che è sposato, ma ha abbandonato in un istituto la figlia nata dal matrimonio e si è rattrappito, forse per 16

questo è precocemente così curvo, con la moglie in una stanza della casa dei genitori, dall'opera di questo giovane muratore è nata una casa, una grande casa in cui da dieci anni sta per andare ad abitare con la moglie, ma che in realtà si limita a visitare con il babbo per apportarvi qualche modifica, ora un muretto, ora una nuova finestra, ora un divisorio. Dopo cinque anni cambia la cucina, ormai vecchia, e dopo sette il pavimento del bagno. Il vecchio padre ora non parla quasi più e anche il figlio che prima si fermava nel lavoro per dire, ecco un fagiano, ora guarda verso un punto, e tace. Un tappezziere, di cui ho seguito il caso, non riesce più a lavorare dopo la morte del padre «fondatore» dell'attività: da abilissimo qual era, sbaglia i lavori e le misure, le tende sono sempre troppo basse, è l'altezza che viene ridotta confondendola con la larghezza. Il tappezziere trova un appoggio in un garzone, un aiuto che non l'aiuta per nulla se non frapponendosi tra la sua mano che lavora e la figura del padre che il lutto ingigantisce riducendo l'opera del figlio a misura di bambino, «Qui manca un pezzo», gli dicono i clienti. Quando anche l'«aiuto» gli si sottrae suicidandosi durante il servizio militare, il tappezziere ricorre all'analista. Ritrovare la propria statura è piuttosto difficile. Vuol dire ripercorrere tutte le proprie stature dalla nascita in poi, sostando in quel luogo che ho chiamato luogo della fobia e che si situa intorno all'età di quattro anni. Epoca in cui il bambino prende per la prima volta le proprie misure, rispetto al padre, alla sua statura, alla sua sessualità. Per questo, con una differenza da Freud che preferisce accentuare l'inizio in due tempi della vita sessuale, collocando tra i due l'estendersi della latenza, quando rileviamo in analisi due «culmini» della vita sessuale, il primo collocato nel luogo della fobia, il secondo nell'adolescenza, al termine culmine leghiamo l'idea di un punto estremo, ma anche di una punta, di un pinnacolo: è in gioco la statura. 17

La sproporzione tra il bambino e il padre nel luogo della fobia, che ricordi di copertura e sogni in analisi sottolineano e cancellano al tempo stesso, mostrando per esempio il bambino in braccio al padre o alla madre, in qualche modo «elevato», e ascensori e scale hanno funzione analoga, questa sproporzione lungi dallo spaventare il bambino, lo rassicura. Ho esaminato nel caso di Richard analizzato da Melanie Klein, come Richard ostacola la sua analista che vorrebbe fargli scegliere per il «grande», il bastimento più grande per esempio, e si identifica con il piccolo proprio mentre, con il disegno del fortino, riproduce qualcosa di simile a ciò che ho chiamato luogo della fobia. Così nel luogo della fobia la sproporzione mette in anticipo al riparo il bambino da una competizione insostenibile. Non a caso, sogni di ascensori, di scale, di elevazioni, appartengono all'analisi di quei casi definiti da Finzi di «nevrosi di guerra in tempo di pace», quei casi in cui il trauma da bombardamento o da scoppio rivela la sua vera natura: una regressione è indotta dal trauma, nella quale però la sproporzione scompare e il bambino si trova precocemente elevato all'altezza di un fronteggiamento al padre. L'esplosione, che è poi quella del godimento paterno, colloca nella frammentazione e nella disseminazione le origini del bambino che di quel godimento . , e questo è il punto in cui si innesta la psicosi, è il prodotto. Il «secondo culmine» poi, quando uscito dalla latenza l'adolescente si trova a fare i conti anche con la propria sessualità, a pari statura con il padre, non rappresenta solo un secondo tempo, che farebbe pensare·a un arco di «maturazione» della sessualità, ma entrambi i culmini sono ora presenti, come se il punto di vista, la piattaforma dell'adolescenza consentisse di recuperare anche il luogo di tanti anni prima, mai in realtà abbandonato, ma portato innanzi lungo sintomi (fobici o ossessivi, soglie, barriere ideali da non oltrepassare) o giochi e ripetizioni. 18

La presenza simultanea dei due culmini, che muta anche qui un fatto di tempo nelle caratteristiche di un luogo e che ritroviamo continuamente nella rappresentazione unitaria e solitaria del romanticismo, le due torri, i due pinnacoli, i due campanili della pittura tedesca dell'ottocento, rappresenta la sfida dell'adolescenza. Può esserci un dialogo con il padre, da culmine a culmine, che evita l'incollamento, l'identificazione dell'adolescente con la sessualità del padre e il suo godimento, ma in questo caso qualcosa ha funzionato nell'ordine dell'eredità e della trasmissione. Il soggetto ha un nome, e ora una tecnica, che condivide con il padre, ma che sono anche gestiti in proprio. Oppure la questione sconvolgente del godimento ora presente in materia anche nella propria vita induce il soggetto a un confrontodistruttivo: o tu o io è l'avviso del suicidio, l'identificazione totale quello della schizofrenia che si manifesta proprio intorno ai quattordici anni. Ma nel «luogo della fobia» anche la madre è investita dalla questione delle misure, ed è lì che si forma la convinzione di un pene appartenente alla madre e che diventa «unità di misura». Tutta la realtà psichica e la vita del soggetto si commisurano da quel momento a quella sorta di «deposito» di una credenza, apparentemente errata, ma incrollabile, che non verrà meno di fatto neanche nell'adulto. Qualsiasi saranno le nozioni che il bambino apprenderà crescendo, le credenze in un pene della madre, in una nascita dall'ano, quelle che Freud insomma ha definito le «teorie sessuali infantili» costituiranno un fondamento tendenzialmente inattaccabile anche se spesso vacillante, o sottoposto a eclissi più o meno lunghe. Questa bizzarra «unità di misura» determina nel bambino che si affaccia, in genere dopo violenti attacchi di angoscia, in quel luogo di decisioni e di scelte, scelte per la propria struttura psichica e per il destino delle pulsioni, sulla piattaforma del luogo della fobia, la capacità di 19

passare dal terrore indistinto per questa «animazione dell'inanimato» che ha percepito nella sessualità e specificamente nel godimento del padre, a una «teoria» sull'animato e sull'inanimato. Ricordiamo il piccolo Hans di Freud alle prese con le prime distinzioni tra il vivente e una sedia: ma la sedia ha il fapipì? E, secondo passo, il fapipì alla madre gli permette di pensare che la propria battaglia con il padre non è perduta in partenza. Se da un lato ribadisce la propria origine dal padre, dall'altro introduce tra il piccolo e il grande la possibilità della gradazione. Nel «luogo della fobia», all'età di quattro anni, altre misurazioni vengono dunque prese. Ciò che divide l'animato dall'inanimato, quale è la distanza tra l'uomo e l'animale, e c'è addirittura la costruzione, il disegno di una mappa, la pianta di una casa, la disposizione particolare dei locali, il rapporto tra dentro e fuori, la barriera che divide, che nel caso classico del bambino analizzato da Freud, il piccolo Hans, si riassunse nella pianta del Dazio, al di là della strada davanti a casa sua, vista dalla finestra, sulla quale sostavano i cavalli e il cui recinto Hans immaginava di scavalcare. In questo luogo la compresenza della legge, la dogana, la barriera, e della trasgressione, il poter passare in un puntosenza porta, trasforma la legge dalla gestione dispotica del padre in una struttura che si commisura all'apparato psichico e la trasgressione dall'incesto che viola la supremazia paterna al misurarsi con una capacità di trovare «altrove» la propria origine. Così i due casi ricordati, del figlio muratore e del figlio tappezziere inseriscono la questione della statura e dell'altezza al centro della formazione del soggetto. Quale è il punto «giusto» della propr_ ia statura? Quella dei quattordici anni, quando, all'uscita dalla latenza, l'adolescente si trova nuovamente a misurare, questa volta a commisurare una sessualità nuova, la propria che inizia (il secondo culmine) con ancora quella del padre? O 20

quella dei diciotto anni, il punto che si può cogliere come massimo rispetto all'emancipazione e alla crescita? I diciotto anni, momento della maggiore età, o per la generazione precedente quello di potersi «emancipare» legalmente dal padre, portano spesso una vacillazione. All'età di diciotto anni una-mia paziente che aveva ovviamente percorso le tappe classiche del suo luogo della fobia, della latenza e dei quattordici anni, ma che aveva accolto nel suo luogo della fobia una morte drammatica e forse desiderata, quella del fratellino proprio sulla soglia di casa travolto da un camion di traslochi, all'età di diciotto anni sviene improvvisamente durante la visita con il padre a una mostra di arredamento. In questo caso, la statura definitiva raggiunta richiama tuHi gli elementi del luogo della fobia, coinvolgendo l'inanimato, il morto, il padre, il piccolo del fratellino, il grande raggiunto e, non ultime, le suppellettili e i mobili di casa, e quelli esterni raccolti nel camion assassino del trasloco. Qui, la propria statura rimane per il soggetto quella che ha stabilito nel «luogo della fobia» e per questo, se questo luogo da teorico si è ridotto a un sintomo nel corso degli anni, lungo la piega di una nevrosi ossessiva, o nell'alterazione di una perversione o addirittura nella frantumazione di una schizofrenia nel punto delicato e drammatico dell'adolescenza che sembra una replica terribile (una replica nella realtà, di ciò che si era temuto nell'angoscia del primo rapporto alla sessualità dei genitori, che è l'angoscia che si affaccia sul luogo della fobia), allora è nella vita che il vacillamento investe quei punti che nel luogo della fobia avrebbero dovuto essere di forza, quando a diciotto anni si è finalmente grandi, o è più avanti, all'altra soglia della maturità, che un uomo di cinquant'anni si fa piccolo, perde la parola, o l'abilità manuale. Ed è allora che la delega di questa abilità a un aiuto, a un sostituto, a qualcuno che «vienemesso in mezzo» può 21

diventare drammatica perché indispensabile per la sopravvivenza. Il compito dell'analista del tappezziere era quello di offrirgli nel suo studio una sorta di nuovo luogo della fobia. Ma questa volta al posto della rassicurante figura del «gestore della tecnica», così chiamo questa figura ricorrente, dell'idraulico, o del fabbro, che si trova nelle analisi dei bambini, dai libri cito l'idraulico del caso del piccolo Hans di Freud, il fabbro di Eric, il figlio di Melanie Klein, al posto del gestore della tecnica che dovrebbe rimettere un «fapipì» perduto, o risolvere il problema della nascita al posto delle cicogne, il paziente trova nell'analista un gestore della tecnica che gli permette invece di scoprire i segreti di un «fai da te». Una sorta di bricolage di cui si apprende il segreto e che consente di ritrovare il momento teorico delle misurazioni senza gli aggiustamenti, gli accomodamenti di uno sviluppo abnorme delle formazioni di difesa. Si ritrova una certa mappa senza la necessità di riprodurla ossessivamente nella vita, nelle case, nei rapporti, nei sogni, ma, invece, con la capacità di disegnarla con la propria matita, abilità del tutto perduta salvo per quel genere particolare che, e mi troverò a parlarne, sono gli artisti. A questo punto, ci siamo già imbattuti inmolti elementi classici delle favole, la piccolezza (Pollicino, Mignolina), la differenza di statura, il gigante, la minaccia, l'orco, la donna con la bacchetta magica, capace di risolvere ciò che sembra irrisolvibile, ed è la funzione della «teoria» con cui il bambino riesce a risolvere, lontano dal «terribile», la presenza simultanea di animato e inanimato, ed è anche la funzione paradossale della credenza pervicace nelle teorie sessuali infantili. Che rapporto hanno dunque le fiabe con queste, che potrebbero sembrare favole e non lo sono? Il rapporto passa attraverso un'altra delle figure delle fiabe, che è anche la figura centrale di tutte le analisi: il 22

padre artigiano. E la questione della tecnica e della sua trasmissione, che abbiamo visto tratteggiata nella storia dei Vezzi di Venezia, articola i legami tra le une e le altre. La favola è un mercanteggiamento della credenza. Si offre una favola perché si possa non crederci e gli elementi comuni alle proprie esperienze e alle proprie costruzioni che il bambino vi ritrova dovrebbero indurlo a cedere sull'intangibilità delle credenze. Gli animali, le barriere da superare e, vedremo in particolare, il meccanismo, sostituiscono pubblicizzandolo il segreto della costruzione del luogo della fobia. Alcune fiabe, per esempio quelle di Grimm, tendono a ripresentare la stessa paura, l'orrore, gli elementi del piccolo, quasi trasferendoli da questa importantissima struttura psichica, che, riproducendo all'esterno caratteristiche, di contiguità e di spazialità particolari, dell'apparato psichico, diventano di questo una prima rappresentazione esterna. La fiaba, attraverso l'elemento dello stupore e della paura tende a scavalcare queste conquiste inducendo una regressione all'angoscia e agli interrogativi che le precedono. Oppure, pensiamo ad alcuni elementi magici e appartenenti alla «bellezza» delle fiabe di Andersen, a spingere il bambino in avanti, dal momento di una conquista teorica verso i primi «aggiustamenti» di un pensiero che Freud chiamò di tipo filosofico e che consistono nel predisporre alle costruzioni di difesa e allo sviluppo della nevrosi. «Il fapipì crescerà» dell'Hans di Freud, che dal momento dell'acquisizione teorica della differenza tra animato e inanimato passa a sistemarsi un futuro rassicurante, è paragonabile all'attesa che nella fiaba suscita il possibile compiersi di un prodigio. Un certo «moralismo» della fiaba apre all'esercizio delle potenze psichiche, pietà, compassione, rispetto, pudore. I movimenti indotti dalle fiabe possono essere dunque due: o all'indietro, con l'eliminazione delle acquisizioni del luogo della fobia e il ritorno all'angoscia, o in avanti 23

con lo scavalcamento del luogo della fobia e la sostituzione della teoria con il pensiero filosofico. In entrambi i casi la perdita riguarda la tecnica. Nel primo è il rapportarsi, come unica, alla tecnica del padre. Nel secondo, la tecnica viene affidata a un gestore, un aiuto, nell'infanzia l'idraulico, il fabbro, nell'età adulta il sostituto, il garzone, il cui eventuale venir meno ripropone il panico e l'impotenza. Al primo si collega la storia del muratore figlio di muratore, che perde la figlia e la parola e per il quale la costruzione della casa diventa una sorta di favola interminabile di una nascita da godere con il padre, al secondo il caso del tappezziere che riproduce nella «mancanza di un pezzo» la rinuncia, suscitata dall'improvviso venirmeno del gestoredella tecnica, alle proprie teorie sessuali infantili. È nella realtà che la mancanza della credenza in un pene della madre gli sottrae l'unità di misura per le sue quotidiane misurazioni. L'artigiano è qualcuno che, per assurdo, per essere tale, deve essere il padre. È in questo punto che l'eredità della favola coincide con la favola dell'eredità. La straordinaria abilità specifica di alcuni psicotici, l'intarsio per esempio o la pittura, o di certi bambini autistici, la matematica, la musica, viene dal diretto bruciante confronto, senza mediazioni, senza aggiustamenti, senza intermediari, ma senza nemmeno il sussidio dell'«unità di misura» che abbiamodetto depositata nellamadre dalle teorie sessuali infantili, con la sessualità paterna. La tecnica paterna giustamente lo psicotico la vede come tecnica amatoria, attività fecondante e dirompente. Ma mentre lo psicotico è devastato dalla tecnica paterna, attraverso la tecnica dell'autismo il bambino, ed è qui che si apre la sua divergenza dalla psicosi, supplisce alla mancanza di rappresentazione delle barriere, con un isolamento nel quale la forma, cui sempre è diretta la minaccia della tecnica paterna, è sostituita da un'impronta tutta 24

su di sé, il senso di un peso, la consistenza della propria lingua e riesce talvolta, anche se eccezionalmente, a farsi oggetto di una manipolazione che può poi trovare la via dell'esterno, di una propria tecnica e di una propria creatività. Ma il più delle volte resta oggetto passivo dell'ars amatoria del padre. Questa è la vera abilità del padre e il padre artigiano la propone violentemente ogni giorno anche nel proprio lavoro. Ogni padre ha dunque a che fare con la tecnica e il figlio dell'artigiano se la trova davanti incarnata. Affiora in ogni analisi il ricordo almeno di un hobby paterno. L'immagine del padre che ripara l'interruttore di una lampada, o semplicemente che sistema e scioglie il filo del telefono annodato, ha una grande importanza, e spesso la tracotanza che si trova già in bambini di quattro o cinque anni è la mimesi, l'assunzione di un'attività tecnica del padre che ha il suo correlato nel bambino in una manifestazione in vitro di brutalità e rozzezza. Il vero figlio del vero artigiano può anche crescere odiando e opponendosi al padre, ma ne ripete i gesti e la violenza: ha dei tratti isterici di mimesi e insieme vede la madre come propria partner reale. La perversione che se ne determina ha quindi un duplice aspetto, di violenza e di provocazione, e insieme di passività e di impotenza e in questo ritratto di colui che provoca ma che può solo subire, le figure del padre e della madre nel suo pensiero logico tanto divergenti, finiscono con il sovrapporsi e il rapporto con l'uno e con l'altra è molto simile anche se uno lo chiama odio e l'altro amore. La differenza con il perverso classico è che mentre per questo il rapporto alla credenza è rovesciato, non crede nel pene alla madre, ma il pene c'è e lui lo copre e lo nasconde, il rapporto alla credenza del vero figlio dell'artigiano non si pone affatto, come per lo psicotico, riguarda se stesso in quanto supposto oggetto di un desiderio universale, come per l'isterico, e in questa contorsione 25

giunge a tormentarlo l'interminabile questionarsi dell'ossessivo. La trasmissione è così avvenuta nella modalità di una tecnica paterna assunta e perpetuata senza modifiche: a caratterizzarla è una sorta di stupidità anch'essa quasi mimata, di un'incapacità a contornare il proprio pensiero, come di fatto non è avvenuto nel luogo della fobia. L'unicocontornorimane, evocatore di minaccia, quello della silhouette che ritroviamo in certi sogni tipici ed è sempre collegato alle figure dei genitori, che nel figlio diventa il fumetto dell'interrogativo di un soggetto senza spessore. Il Vangelo, perché Cristo possa parlare mostra una dissociazione sin da bambino di Gesù dal padre artigiano fino a fare di lui un padre «putativo». Ma il tentativo di separare la tecnica artigiana da quella generativa passa attraverso lo stesso meccanismo della favola. Lo stupore e il prodigio che l'accompagnano, finiscono con l'aprire il varco alla figura di un autore più potente ancora, il generatore per eccellenza, colui che ha forgiato con la creta i progenitori e popolato la terra e nel cui nome il Figlio muore. Quando il figlio di Francesco Vezzi, Giovanni, impianta una fabbrica di porcellane a sostituire con una propria la tecnica del padre orefice, sceglie quello che gli inglesi del ramo chiamano un moulding, una manipolazione, un forgiare, che mentre cerca di spostarsi dal confronto con la tecnica paterna ripete del Dio biblico l'impastare e modellare la creta, rinnova l'atto dell'origine e la domanda sul segreto della nascita. Nel film di Herzog, Cuore di vetro, storia di una vetreria sullo sfondo di un genesi della terra e del mare e di un riepilogo darwiniano del popolarsi del mondo, il figlio che si trova ad esserne a capo impazzisce nella vana ricerca di un segreto perduto, quello della nascita di un ve. tro di un particolare rosso, che è stato sepolto con la morte dell' arcanista appunto, del detentore tecnico di questo tipo 26

di segreti, e che non appartiene più nemmeno al padre ancora presente ma impotente, paralitico e muto. La scissione tra la figura del padre e quella del gestore della tecnica serve a smorzare la potenza virile del genitore, non è più il padre che il figlio teme, e a cui si raffronta, ma la figura sostitutiva. Morto e sepolto il gestore della tecnica, è il corpo di una ragazza privato del sangue e della vita a dare al figlio l'illusione di risolvere l'inceppo della tecnica. Il sangue spostato altrove dal corpo della donna, che quello che abbiamo chiamato il vero figlio del vero artigiano sceglie frigida e «come morta» o collegata in altri casi a qualche evento mortale (dallamorte del padre di lei il giorno delle nozze alla casuale morte di un gatto come sollecitazione al coito), può allora accendere il fuoco della fornace paterna e fornire l'esatta gradazione di colore. Il segreto del vetro rosso è un segreto di sangue, un sangue vampirizzato dagli altri ma innanzi tutto da un sé pallido ed esangue, e offerto al padre. Sulla ricerca di una materia inerte come ciò a cui sarebbe possibile ridare la vita, la favola innesta una piccola forma di necrofilia. Al centro della favola è spesso il sonno e la morte, come quello di Biancaneve, della Bella Addormentata o della fanciulla che, preservata in una torre da un pericolo mortale preconizzatole alla nascita, si punge con il proprio arcolaio e si addormenta, vittima della propria specialità artigiana, mentre la torre, pendant delle teorie sessuali infantili tramutate in prigione, non basta a proteggerla: vana è la torre, dice la favola al bambino, alla tua stessa nascita è legata la morte. Il principe in grado di insufflare la vita con un bacio avvia al contrario alla maturazione genitale ed educa alla penetrazione. Eviterai la morte solo accettando la generazione. Così Brunilde, addormentata in un castello (qui appare un elemento del romanzo familiare) circondata dal fuo27

co, viene salvata e ridestata da Sigfrido solo per, nel momento di molto posteriore in cui riconoscerà in lui il suo vero salvatore, rientrare nel fuoco della pira che lo accoglie morto, e morire con lui. Brunilde in realtà non si è mai ridestata, è rimastavergine non amando il marito che non è colui che l'ha salvata, e per questo è destinata al rogo. Ma è Sigfrido stesso, il morto, l'eroe dimentico che si è piegato a un matrimonio senza amore con un'altra, che ve la trascina. Il movimento della favola, di regressione verso l'angoscia o di spinta in avanti verso il compimento di un destino mortale, salta la possibilità di un parlare in nome proprio. Il meccanismo della favola coincide con il meccanismo nella favola. Nell'Usignolo dell'imperatore di Andersen, la scelta che l'intera corte fa dell'usignolo meccanico rispetto a quello vivo, perché il suo canto è più ordinato e più facilmente si può accompagnarlo in coro, rivela il rapporto che la favola intrattiene con la tecnica. Se ne impadronisce, ma per convogliarla al giusto finale. La possibilità di una ripetizione senza fine, meccanica e ossessiva, riduce le possibilità creative della tecnica in una coazione nella quale la tecnica si allontana dall'arte per diventare prima difesa e poi nevrosi. A un certo punto il meccanismo che permette al simulacro di uccello dell'imperatore di cantare esplode in mille pezzi. E al capezzale dell'imperatore morente giunge l'uccello vivo ad allontanare la figura della morte. Anche qui, come in Biancaneve o nella Bella Addormentata, la favola offre nel finale il corpo vivo, di carne, e lo offre perché la vita continui e si perpetui. Pinocchio, figlio di Geppetto il falegname, incappa in mille incidenti mortali. Tuttavia appena gli si bruciano i piedi, gli si possono rifare, può avere come il piccolo Hans con il fapipì, un bel paio di piedi tutti nuovi. Ma lo svantaggio di questo «pensiero filosofico» che aggiusta 28

e sistema consiste nel non essere facilmente definibile la misura in cui la protesi, elemento che fa la sua comparsa «teorica» nel luogo della fobia, riesce a mantenersi nelle «giuste proporzioni». Ne abbiamo in questi anni prese le misure riguardo alle diverse «patologie», nevrosi, psicosi, perversione. Ma è solo grazie alla presenza di un'unità di misura che le teorie sessuali infantili forniscono, che essa può non dilagare fino a comporre un burattino. Ciò che Pinocchio fa, non lascia un vero segno. Il grillo ucciso rivivrà, cade nella padella di Mangiafuoco senza conseguenze ed è ovvio a questo punto che, divorato dalla balena, vi si ritrovi all'interno davanti a suo padre. Il finale, in cui Pinocchio si trasforma in bambino vero, di carne, è prodotto dal fatto che Pinocchio accetta di riconoscere, nell'artigiano e nella fata, i suoi genitori, che accetta di ubbidire loro e di offrirgli il suo obolo di mantenimento. Un vero figlio di vero artigiano, dopo un clamoroso distacco da casa e dalla sua città, vi ritorna a poco a poco, subdolamente, richiamato dal disprezzo del padre. Vi ritorna con un finto successo (mente su un suo ipotetico impiego) e rimpannucciato come Pinocchio con una giacca nuova, scroccata («senza di lei non posso vivere»). Vi ritorna con il pensiero di accasarsi, per farsi «mantenere» da lei al padre, con l'ex fidanzata, a suo dire «totalmente inerte». Come in "Cuore di vetro", il sangue di chi, viene offerto al padre? Certo questacarne viva, tonda, bianca, che compare nell'ultima pagina di Pinocchio non può essere che repellente, perché è vista nell'ottica del burattino, con lo sguardo stesso del perverso fallito che abbandona le sue avventure pilotate per riprendere la classica posizione paterna. La giacca nuova, ripiegata con cura sulla spalliera della sedia, vale la spoglia del vecchio burattino che il nuovo Pinocchio bambino scorge appoggiata «a una seggiola, col capo girato sur una parte, con le braccia ciondoloni e con le gambe incrocicchiate e ripiegate a mezzo», men29

tre il figliol prodigo si appresta a pagare il suo tributo alla generazione. La fiaba al servizio del pensiero filosofico. C'è una fiaba di Goethe, intitolata fiaba, in cui questa faccenda di dare e togliere la vita si rimbalza tra una figura anziana di «padre» e una fanciulla. La fanciulla accoglie inerte, senza fare gesto, che sa mortale, il giovane che le si getta tra le braccia. Ciò che la tocca (lei non tocca) viene pietrificato e poi offerto al vecchio che con la luce della sua lampada lo muti in pietre preziose. Lei a sua volta, che toglie la vita a ciò che ce l'ha e la immette in ciò che è inanimato, restituisce al giovane il movimento. Ma è un movimento finto. Lo sguardo del giovane resta fisso e privo di intelligenza. Anche qui c'è un finale. Il finale in cui tutto torna alla vita e all'amore. Ma Goethe combatte una battaglia con Schiller (la fiaba è destinata ad essere pubblicata sulla sua rivista) perché Schiller la pubblichi in due tempi, perché il finale sia isolato e non appartenga alla fiaba. «Ma i lettori nel frattempo si dimenticheranno della fiaba...» Non importa. «Ma il finale da solo non avrà alcun senso...» Meglio così. L'assenza del finale, è per questo che Goethe scrisse questa fiaba solo per Schiller e che, nelle sue intenzioni, essa doveva essere per lui un incitamento a distogliersi dal «pensiero filosofico» in cui andava perdendosi, e un invito a ritornare alla poesia. Allora forse c'è un'altra tecnica, per impadronirsi della tecnica, una tecnica che non sia legata al disprezzo di un padre violento e a un figlio che lo scimmiotta. Ma è quanto, appunto, vedremo una prossima volta. E tuttavia, direte voi, la storia dei Vezzi sta a provare il contrario, sulla sorte del vero figlio del vero artigiano. È possibile che un padre, orefice, affidi tutti i suoi affari a un figlio che impianta una propria originale attività di ceramista, e gli faccia già in vita donazione della parte 30

di patrimonio che riguarda questa attività artigianale. Ma, dei tre documenti di cui vi avevo parlato all'inizio, solo sui primi due ci siamo soffermati: la procura e la donazione. Rimane il terzo, il testamento. Vediamolo ora. Il 17 aprile 1739 FrancescoVezzi, il padre, manda a chiamare un notaio e gli consegna il suo testamento olografo. Il testamento si apre con la richiesta di molte S. Messe in suffragio, dispone elargizioni benefiche, e passa quindi alla destinazione del patrimonio. Questo viene lasciato ai figli maschi del figlio Giovanni. Che non ha figli Jllaschi bensì quattro ormai adulte figlie femmine e una moglie ormai troppo cagionevole di salute per partorire ancora. Si aggiunge che in caso di mancanza di figli maschi, i beni passeranno interamente al Pio Ospitale della Pietà. Che riceve quindi l'intero patrimonio di Francesco Vezzi. Ma, si potrà obiettare, c'era pur sempre quella donazione, fatta in vita dal padre Francesco al giovane figlio Giovanni. Ma basta leggere il documento perché la natura della donazione avvenutaproprio nel momento del maggior impegno del figlio Giovanni nella fabbrica di ceramiche, diventi il punto chiave tra la procura e il testamento. Con la donazione, Francesco divide l'intero patrimonio dalla parte impiegata nella fabbrica, giusto nel momento, cinque anni dopo la procura generale, in cui il figlio Giovanni si impegnava economicamente assumendo i più esperti artigiani e l'arcanista Hunger per dar vita alla fabbrica, servendosi quindi come garanzia di tutto l'insieme di «affari» che la procura gli permetteva di trattare. La donazione del padre giunge a stroncare la sua attività, a sottrargli il patrimonio che gli era servito da garanzia, e a porlo dinanzi al fallimento. Giovanni non vuole rinunciare alla fabbrica ed esita. Il padre intromette amici potenti e lo stesso Procuratore di Venezia perché obblighino il figlio ad «atterrare» la fab31

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