scienza autoriale e all'onnipotenza del maestro, e per fare ciò non potrà che arrischiarsi a recidere addirittura il cordone ombelicale: la lingua stessa. Alla luce di quanto detto si può allora intendere la motivazione data dallo stesso Beckett al suo straordinario "tradimento" linguistico («parce qu'en français c'est plus facile d'écrire sans style»), si può comprendere cioè quale sia stato lo style di cui egli sentì la necessità, o il dovere morale, di fare a meno. È lo stile onnipotente, quello che nello stream congiunge (o vuole congiungere) pulsioni e percezioni nella superficie della coscienza, ciò che, scegliendo il francese, Samuel Beckett tenta di eliminare dal proprio procedere narrativo. Il francese, in quanto lingua "altrui", sottrae alle parole le inevitabili derive formali, assestandosi in concetti che si decantano scarnificati, elementari, puri; conseguenzialmente, il luogo del "chi dice", proprio perché tendenzialmente privato del "com'è detto", si può adagiare in una prima persona da dare immediatamente come percepiente (così che il repertorio delle percezioni possa assurgere al ruolo di procedere narrativo). Un autore che fondi le proprie strategie narrative sulle percezioni del luogo del "chi dice", ammette inevitabilmente di procedere nella stessa insipienza e nella stessa impotenza del proprio personaggio (e, sia detto, di ogni percepiente). «J'ai connu Molloy et la suite», dichiarò Samuel Beckett a Gabriel d'Aubarède nel 1961, «le jour où j'ai pris conscience de ma betise. Alors, je me suis mis à écrire les choses que je sens»5 ; e, dieci anni più tardi, a Vivian Mercier: «I realized that I knew nothing. I sat down in my mother's little house in Ireland and began to write Molloy»6. «Je suis dans la chambre de ma mère», recita conseguenzialmente il famosissimo inizio di Molloy (scritto solo due anni dopo la fine della stesura di Watt). Il fatto, dunque, che personaggi come Molloy e Malone non siano garantiti da un autore onnisciente né pompati nel211
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