l'impercepibile e di questo si finse scandaglio. Nel tentativo di forare la superficie, gli autori che rifiutarono l'onniscienza (ma in nome dell'onnipotenza), primo fra tutti lo stesso Joyce, non solo spostarono il principio dell'omissione da un piano, diciamo così, orizzontale (la percezione è esterna; tutto ciò che è percepibile si sa di tutti i percepiti; l'impercepibile è, quando è, solo supposto) a uno verticale (la percezione è interna; uno è il percepito, egli stesso percepiente; ciò che non entra nelle sue percezioni non è) ma, complice una generalizzata e orecchiata adesione alla psicologia del profondo (su cui, prima o poi, varrebbe la pena di soffermarsi) tentarono, attraverso il termine medio della coscienza, di legare e confondere impulsi inconsci e percezioni. L'esito più affascinante (ma altrettanto narcotizzante dell'onniscienza di tipo balzachiano) di tale ribollimento è senza dubbio lo stream ofconsciousness joyciano. Che la coscienza onnivora, cui si piegano pulsioni e percezioni addomesticandosi (vale a dire schiudendosi nel personaggio pro domo sua), stia alla base anche dell'onnivoracità verbale finneganiana, è fin troppo facile argomentarsi. Risolto il "chi dice questo?" nell'elezione di un personaggio, a quest'ultimo l'autore aderisce in una totalità devastante: lo stream s'impossessa del personaggio cancellando i contorni di ogni esemplarità che non sia, piuttosto, exemplum del proprio autore, e non in quanto soggetto biologico o principio d'amalgama ma giusto, diciamo, in quanto luogo autoriale e sforzo creativo e conoscitivo. Non si tratta, dunque, di un'identità del fattore (quale quella che si dà una volta per tutte nel procedere poetico) bensì di un'identità di funzione; di Leopold Bloom, o Stephen Dedalus o Molly Bloom, luoghi del "chi dice" dell'Ulysses, permane durante la narrazione solo qualche brandello: il resto è la calce copiosamente sparsa dal loro autore. Questo s'intendeva quando s'è parlato di quell'onnipotenza autoriale basata sulla crescita dismisurata del208
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