Il piccolo Hans - anno XVI - n. 63 - autunno 1989

La parola è svuotata, e il gioco dell'anafora, il gioco seriale, dicono di un eden linguistico rovesciato, senza nostalgia. «Lo splendore simbolico delle tentazioni/ nel filo della caduta/ per una misera mela»: l'esilio dalla lingua pura non porta verso la nostalgia, ma verso la rappresentazione della nausea. In questa sezione e nella successiva (La festa) i rituali sono designificati, c'è un'immobilità di gesti perplessa, anticlassica («Sacerdoti e fanatici scolpiscono calcomanie/ sulle candeline e domani è un nuovo giro/ di malinconia»). Si fa fitto l'uso di loro: gli altri, l'anonimia che agisce: «Puntano dove non sono che testo/ o festa o evenienza». Gli altri distanziano l'io del poeta, ma non c'è il poeta, e gli altri sono verbi, plurale fantasmatico e ossessivo. Le pratiche di scrittura poetica, viste da questa anonimia, mo�trano il loro pallore rituale. Si allestisce il palco per un teatrale suicidio della lingua poetica, con annesso compiacimento: «La metafora si taglia le vene./ Una sciamanìa verbale subbuglia la lettera/ smeralda, il nome domini, il nome sine nomine/ e l'innominabile». Le ultime sezioni sono una iperpoetica ironica, dicono della poesia per criptica designazione, per allegorizzazione erotica, ed erratica, per obliqui cenni alle strategie del1'operazione poetica: razionale, prevista, dosata. Anche la perfezione, e la purezza, della lingua non sono che attitudini di una strategia discorsiva. È qui che si fa largo l'epigramma. Il quale ha sempre sullo sfondo un evento da nominare: la perdita del nome, il labirinto dove l'identità è smarrita, e non ci sono più parole per dirla. Antonio Prete 238

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