prio in atto, in questi versi, una corrosione della lirica, dei suoi fantasmatici io. «A forza di dire si riesce a cavare / qualche divinità dai boschi». Il poetico è quel luogo chiuso dove si consuma, si brucia, si vanifica l'esperienza verbale. C'è in questi versi una sorta di critica del polimorfismo poetico, attraverso l'esibizione degli eventi linguistici concatenati, sovrapposti, aggregati ecc. Eppure qui, a differenza di altri momenti, è come revocata la fiducia allo sperimentalismo e si dilatano gli elementi, o filtri, di una riflessione (nel senso ottico) che indica gli oggetti per oblique approssimazioni. Nell'ultima parte di Musaico c'è qualcosa di una cosmogonia burlesca, tra familiarizzazione ironica della scienza e malinconia per la solitudine priva di ogni rassicurazione protettiva. L'evento è sempre qui, sotto i nostri occhi, eppure questa vicinanza lo rende incomprensibile: da qui, da questa familiarità o presenza della materia muove il vacillare della sicurezza verbale, dell'io, muove la marginalizzazione dell'uomo. La poesia come specchiarsi della materia nella lingua stralunata dell'uomo. Più che cosmogoniacomica, cosmogonia ironica, propedeutica al silenzio della poesia, al suo arrestarsi con uno scossone, con un sussulto verbale. Nella sequenza che ha per titolo Divagazioni, il corpo dell'uomo, da orizzonte metaforico, diviene tessitura-base per uri movimento di immagini, ma anche campo nel quale convergono le divagazioni, le elencazioni, i frammenti verbali del presente. La poesia appare come distanziamento nell'impossibile, come abbandono del senso tragico del possibile. Il paesaggio è consegnato ad una ripetizione che dissacra il sublime: «Il sublime fulmina sereno I nel plasma annoiato di colline». Il paesaggio umano, la cronaca, gli eventi, persino i luoghi della speranza, sono accostati con un lavoro di decantazione, di passività: il ritmo di un controidillio è il riflesso linguistico di questa deflagrazione. «Il vento dei versetti profetici I corruga il plesso delle immagini». 237
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