con cui viene fatta (sempre più «scientifici»), ma alle motivazioni che la scatenano - è forse l'ultimo superstite altare del sacro nella nostra era scientifica. ]...] Con la presa di coscienza data dalla polemologia che porta appunto alla dissacrazione della guerra, l'uomo da ingenuo officiante di un rito smette di abbassare lo sguardo di fronte al mistero, comincia a vedere i conflitti con occhio spregiudicato, impara a gestirli con responsabile realismo.» In realtà quell'occhio spregiudicato non l'abbiamo ancora. 6 Nel saggio che cito sulla speranza arrivavo a focalizzare questi connotati per la fisionomia del nostro sodalizio: «1. che cioè noi ci stiamo muovendo nella direzione di una terapia sociale; 2. che il nostro è un gruppo anche di ricerca. Noi siamo cioè, e con noi tutti coloro che via via si uniranno, dei ricercatori, di questo tipo, vale a dire che contemporaneamente vogliamo curare il male del mondo. In una parola i due momenti della ricerca e della terapia vanno di pari passo, si svolgono simultaneamente e si influenzano reciprocamente. Non abbiamo cioè le soluzioni già in tasca e non predichiamo (come facevano gli apostoli o come fanno i pacifisti ed i non violenti), né siamo degli studiosi, dei ricercatori puri che indagano per scoprire la verità da consegnare noi agli altri assentandoci ora dall'intervento o dall'impegno, ma siamo fin da adesso pazienti e dottori nello stesso tempo, interessati alla ricerca ed alla terapia contemporaneamente responsabilizzati della malattia e della cura da trovare, ma consapevoli fin da adesso che la cura è già nel cercare e in quanto ci stiamo curando con ciò siamo già dentro la ricerca.» Della circolarità di ricerca e terapia sono tuttora convinto. Quanto al "curare il male del mondo" penso che si debba partire da una posizione meno pretenziosa, come cerco di dire nella decima giornata de Il coraggio di Venere, ove problematizzo il crearsi di una task-farce umilmente adeguata. 7 A proposito delle dinamiche subdolamente difensive in genere, e dello scioglimento dell'ISTIP in particolare, avevo scritto tra parentesi nella mia scaletta: «Qui c'entra anche Verdiglione, ma per ora non ne parlo». Penso ora - dicembre 1986 - che sia invece bene parlarne, non tanto per risalire sterilmente ai contrasti di allora, quanto per fornire - sul cammino di Fomari una notizia - del tutto inedita - utile ai suoi futuri esegeti. Nell'ultima assemblea dell'ISTIP - che avrebbe dovuto sancire il programma d'attività elaborato e proposto dall'apposita commissione per l'anno a venire - ci fu un colpo di scena. Fomari, che aveva nel frattempo incontrato Verdiglione appena rimpatriato da Pa- ·rigi, manifestò una sua propensione prioritaria per la semeiotica, invitandoci a modificare il programma in quella direzione. Personalmente - e senza fame mistero - mi irritai molto perché quella improvvisa deviazione - in virtù anche dell'indiscusso prestigio di Fomari - sconvolgeva improvvisamente tutti i nostri piani, vanificando il lavoro di mesi. Nel contro-argomentare, precisai pure che ognuno - me compreso - poteva dedicarsi alla semantica, senza che ciò dovesse tradire la ragion d'essere dell'ISTIP. Di fatto non ci furono più assemblee del nostro istituto. In seguito con Fomari ed altri ci incontrammo con Verdiglione. L'incontro avvenne in una saletta del Piccolo Teatro. Se non ricordo male c'era anche Franco Fortini. lo fui tutt'altro che estasiato 228
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