trambi siamo molto turbati e non sappiamo cosa dire. Gli domando se gli capita di provare simili sensazioni in occasioni analoghe. - Sì, mi risponde, quando incontro qualcuno che mi è indifferente-. Al che gli faccio notare che gli piacerebbe cambiare me in una conoscenza indifferente allo scopo di rendere meno dolorosa la separazione. Rifiuta la mia supposizione, quindi riferisce di avere provato la stessa cosa nei confronti di suo padre. Avrebbero tante cose da dirsi, ma al momento giusto non sanno mai di che cosa parlare. Nel corso dell'ultimo incontro e per quanto lasci trapelare la sua soddisfazione per i risultati della terapia, non manca di esprimermi un mascherato disprezzo: mi racconta la lunga storia di un veterinario che non sapeva curare il suo cane. Due settimane dopo la fine della cura, il mio paziente ha una violenta discussione con la madre che sfocia in un compromesso; promette per il futuro di essere più buono e la madre in cambio si asterrà dall'immischiarsi continuamente nelle sue questioni. Dall'inizio della terapia le relazioni con i compagni di classe sono progressivamente migliorate. Sei mesi dopo, durante la seduta di controllo, riferisce che i rapporti con questi ultimi sono assolutamente soddisfacenti. La sua concentrazione negli studi lascia sempre a desiderare: i conflitti in casa continuano, ma in forma meno acuta. Tutti e tre i casi su esposti hanno risolto un problema di carattere acuto. Si pone la domanda: come mai, in che modo? Nel primo caso possiamo rilevare che l'esperienza affettiva correttiva offerta dalla terapia è servita da modello per una scelta più adeguata del partner. Nel caso di questa ragazza si trattava di una precoce fissazione all'immagine paterna, segnata da tratti sadici. La terapia l'ha aiutata a liberarsi- per lo meno in una certa misura - di questa immagine. Nel secondo caso è ancora la tera232
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