Il piccolo Hans - anno XIII - n. 51/52 - lug./dic. 1986

dizione - l'infinito catalogo idiolettico di Hopkins, ad evocare quell'ideale di rappresentazione già teorizzato da Coleridge, di parola che descrive designando, capace di «make nature thought and thought nature... in the co-istantaneity of the plan and the execution»•. L'inclinazione («vice») di Hopkins a leggere e tradurre la realtà attraverso la «obliqua», eppur precisa ottica dell'inscape è assai precoce - risale infatti agli anni di formazione ad Oxford, all'incontro con la filosofia greca, la poesia romantica e pre-raffaelita, Ruskin e Pater. Ma, a parte la realtà etimologica, e nonostante il ricorso frequente e disinvolto al termine, il poeta non ha lasciato definizioni precise e sistematièhe: una reticenza quasi inspiegabile sullo sfondo di un intervento critico-teorico corposissimo e puntuale. Cercheremo allora di decifrare tentativamente il valore concettuale ed estetico dell'inscape rileggendo alcune note sparse, dagli scritti epistolari, dai saggi e dai diari. Già nel 1868 - la lettera a Bridges data 1879 - in un breve saggio giovanile dedicato alla teoria dell'essere di Parmenide, Hopkins scriveva: «All things are upheld by instress and are meaningless without it»; e con simultaneità di piano, questa presunta qualità intrinseca alle cose passava per il soggetto percepente, fino ad appartenergli, attraverso il suo «feeling for instress»: «I have often felt when I have been in this mood, and felt the dephts of an instress for how fast the inscape holds a thing that nothing is so pregnant and straightforward to the truth as simple yes and is»5 • Su questo misterioso «mood» e sulla sua incerta natu1�;1, troviamo alcune anticipazioni indirette in una lettura Jd 1864 dedicata ad alcune riflessioni sulla tradizione poetica inglese, e sulla natura dell'ispirazione in generale: 36

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