Anche il Gardner9 vede sullo sfondo le tre grandi figure della follia e del dolore della tragedia shakespeariana; nel macrocosmo di sofferenza e di «lamentazione» dei sonetti «terribili» - in particolare dei sonetti 40, 41, 44, 45, 46, 47, SO, 51 e 69 - egli riconosce anche la voce di grandi profeti biblici: Geremia e Giobbe. L'apertura del sonetto SO, ad esempio, è una parafrasi da Geremia 12, 1, mentre altrove risuona il lamento di Giobbe, duramente provato da satana con il consenso del suo Dio. È ancora il lampo forcuto a farci da guida, ora dentro il testo di Shakespeare: siamo nella landa deserta, Lear sotto una violenta tempesta rimane con il suo fool, finché entra Edgardo, condotto come un pazzo attraverso il fuoco e la fiamma dal demonio: con le sue parole e i suoi abiti stracciati entra come un fool raddoppiato. Anche Lear si straccia le vesti, ed esclama: ... unaccommodated man is no more but such a poor, bare, forked animai as thou art (King Lear, III, iv 109-11) . Ma a questo punto il fool, il compagno inseparabile del sovrano, quel nulla che osserva tutto e parla dalla propria casella vuota, interviene e invita il re a chetarsi, proprio come Hopkins invita se stesso alla calma nel sonetto 47, e lo fa in un modo - nota C.C. Abbott10 - che richiama, appunto, il fool di Lear. My own heart let me more have pity on; let Me live to my sad self hereafter kind, Charitable; noUive this tormented mind With this tormented mind t9rmenting yet. (47, versi 1 - 4 )11 Qui, come nell' abrupt self di Purcell, un self separato affronta il poeta, gli si lancia all'orecchio come un lampo per dargli dolorosamente la cognizione della divisione, del suo essere in un punto, esterno a lui, da cui tortura la mente: «tortura la mente a torturare questa torturata mente», che dà voce alla Furia, alla Sibilla in quel dialogo con 19
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