bitrio di leggi sconosciute e il sopruso della servitù sessuale amministravano il villaggio, il mondo della terra e della fertilità ... » (1984, p. 212). In realtà, come abbiamo accennato, tra il Castello e il villaggio, tra la Legge e i sudditi, tra l'alto e il basso, non c'è soltanto differenza ma anche somiglianza: purché - aggiungiamo - si parli del regime confusivo. E purché ci si renda conto che questo regime non esaurisce la totalità dell'universo kafkiano, e soprattutto non esaurisce e non include senza residui lo sguardo del protagonista. È questo ultimo che può ancora decidere, in un'ontologia flessibile come quella kafkiana, se i labirinti del Processo e del Castello resteranno indecifrabili. 6. Il silenzio delle sirene Si è parlato dello sguardo del pr<;>tagonista come del iuogo in cui si combatte la sfida per l'interpretazione: ma ad esso si potrebbe aggiungere una altro luogo, e cioè le sue orecchie. Pochi scrittori hanno saputo rendere, come Kafka, tutti gli stati del suono. Ancora una volta, incontriamo due eccessi. C'è un suono che si abbassa - soffio, brusio, rumore frusciante: il brusio di voci infantili che pro- . viene dal ricevitore telefonico del Castello; o la risata di Odradek («la risata che può fare chi non ha polmoni. Suona un po' come il frusciare di foglie cadute» R. 253). E il suono che si alza fino a diventare insostenibile: grido, canto, strepito. Basti citare il grido del custode che viene fustigato, nel_ Processo, grido che sembra venire «non da una creatura umana, ma da uno· strumento martoriato» (P, 397). O il baccano del dormitorio, nell'Hotel occidentale (A, cap. V). Non vanno tralasciati però i passaggi immediati da una sonorità lieve a una forte, e viceversa. Nelle trombe del corpo dei pompieri, un minimo soffio si trasforma in un feroce ruggito (C, 770); per contro, il tocco di campane, alato e giocondo, che per un istante fa tremare l'agri168
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