I l picco l o Hans rivista di analisi materìalistica 51/52 luglio/dicembre 1986 Virginia Pinzi Ghisi 5 Qualcosa del terribile: preliminare a uno studio della schizofrenia Ermanno Krumm 9 I sonetti «terribili» di Hopkins Rossana Bonadei 35 G.M. Hopkins. Incursioni naturali in forma di parola Geralrd Manley Hopkins 61 Prose e scritti giovanili Moreno Manghi 105 Il destino del fantasma nella perversione Alberto Castaldi 132 Lettera inaugurale/lettera postuma: la scritturà $acrificale Giovanni Bottiroli 143 Strategie per Kafka Alessandra M.arzola 173 Il Ritratto dell'Artista da Giovane: il Joyce di «Novembre» Angelo Colombo 189 Lo specchio nella .«Lira» di G.B. Marino Giuseppina Restivo 203 L'educazione simbolica: percorso shakespeariano Paolo Bollini 242 L'esegesi vitale di lbn 'Arabi Mariarosa Mancuso · 262 Edmund Gosse: un naturalista e suo figlio SOGNANDO LA PSICOANALISI Massimo Cironas 273 Eiaculazione precoce. Rivissuto edipico LA SCIMIA DELLE LETTERE Elisa Del Freo 283 Quella traccia nella memoria INDICE
Il Piccolo Hans rivista di analisi materialistica direttore responsabile: Sergio Finzi comitato di redazione: Contardo Calligaris, Sergio Finzi, Virginia Finzi Ghisi, Giuliano Gramigna, Ermanno Krumm, Mario Spinella, Italo Viola a questo numero hanno collaborato: Paolo Bollini, Rossana Bonadei, Giovanni Bottiroli, Alberto Castoldi, Massimo Cironas, Elisa Del Freo, Sergio Finzi, Virginia Finzi Ghisi, Giuliano Gramigna, Gerard Manley Hopkins, Ermanno Krumm, Mariarosa Mancuso, Moreno Manghi, Alessandra Marzola, Giuseppina Restivo, Mario Spinella, Italo Viola. redazione: Via Nino Bixio 30, Milano, te!. 2043941 abbonamento annuo 1987: (4 fascicoli) lire 35.000, estero lire 52.500 e.e. postale 33235201 intestato a Media Presse srl Via Nino Bixio 30, 20129 Milano Registrazione: n. 472 del 7-5-74 del Tribunale di Bari Fotocomposizione e stampa: Dedalo litostampa spa, Bari.
I l picco l o Hans Revue trimestrelle d'analyse matérialiste Directeur: Sergio Finzi Rédaction: C. Calligaris, S. Finzi, V. Finzi Ghisi, G. Gramigna, E. Krumm, M. Spinella, I. Viola Abonement 1 an (1986): 4 numéros: lire 52.500 Edizioni Dedalo spa, casella postale 362, 70100 Bari
Qualcosa del terribile: preliminare a uno studio della schizofrenia Il riconoscere un fondamento psicotico alla nevrosi' ci ha portati davanti a un terribile. Il riconoscere cioè che la psicosi appartenga alla struttura del soggetto nel momento in cui si determina: nella cioè divisione del nome del · padre e nella possibile o nella mancata lavorazione di questo nome, il terribile è stato trovarsi di fronte al godimento del padre, che la propria origine sia riconducibile alla commistione di 'lanimato e di inanimato, il godimento e il pullulare dei semi, commistione che sull'orlo del luogo della fobia porta al vacillamento dell'un termine nell'altro. Il luogo della fobia dà al soggetto la vera possibilità di strutturarsi con il riconoscimento di una distinzione e di una separazione tra animato e inanimato. La sedia non è il vivente, i morti non tornano a vivere'. Il luogo della fobia è,_ abbiamo de'tto, la pianta, il disegno che fornisce al soggetto la delimitazione, di ciò che è fermo, il residuo antecedente, arcaico sul quale può accumularsi la rimozione. Su · · questa· 'mappa può allora entrare l'animato e il cane, il cavallo diventano la garanzia di un passaggio .alla nevrosi: è il vivente che tutela nella sua rappresentania di una vita però altra da quella umana la costruzione di difesa che da lì diparte permettendo il distacco dalla psicosi. Da psicosi a nevrosi. Fobia e inibizione rappresentano perciò partendo però da una struttura organizzata in tal senso, qualcosa dell'an5
tica commistione di animato e inanimato e costituiscono il filone inquietante che accompagna il soggetto lungo ,la nevrosi e se il luogo da cui emergono viene cancellato possono mutare nel corso della vita del soggetto in altrettanti spunti psicotici. Il soggetto mentre egli stesso ha formulato il luogo della fobia come appunto la formulazione teorica atta a strutturarlo e ha posto l'animale a guardia di questò luogo e a suo. ricordo, viene tenuto in scacco dall'abbaiare dello stesso cane che, attentandosi alle barriere poste dal luogo della fobia, riporta la realtà della moltitudine delle pecore che muore decimata da un'iniezione sbagliata. Il cratere che può aprirsi nel naso dell'uomo dei lup' i è custodito da Woolf e si apre ogni volta che all'immagine del lupo si contrappone o si accosta, quella della sorella che appare sulla superficie dello specchietto3 risuscitando, attraverso la demolizione delle teorie sessuali infantili (la sorella mor-. ta ha ora acquistato un suo sesso diverso, una verginità marcata dal film «La Suora Bianca» che la evoca all'«uomo dei lupi»), nel significante «Bianca» l'immagine delle pecore morte e del godimento paterno. Il godimento del padre dà una vita che è anche una morte. Esso rappresenta il primo impulso al ritorno all'inanimato ma a un inanimato preda del vivente, e rimane sotteso nell'arco della vita del soggetto come l'elemento scatenante l'orrore del vacillamento tra morto e vivente. Abbiamo visto nel caso del piccolo Giacomo• come nella rilettura del piccolo Hans e del caso del figlio di Melanie Klein come solo ben posizionat<? il luogo della fobia il bambino ne ricavi che il nonno, il morto, una volta morto non si ripresenta come vivente. La sanità sembra così essere posta dall'istanza di una morte che l'esito della pulsione equivalente riporti senza ombra di dubbio all'inanimato. Perché si possa morire dev'essere spazzata via l'adesione alla propria origine q?-Lale · viene rintracciata nel godimento del padre. 6
Proposizione questa che ci permetterà di introdurre, come vedremo, una definizione di schizofrenia. Virginia Pinzi Ghisi NOTE ' Finzi Ghisi V., Il fondamento psicotico della nevrosi, in «Il piccolo Hans» 43-44, luglio-dicembre 1984. ' Finzi S. e Finzi Ghisi V., Nel disegno del rebus: manipolazione del nome del padre e deposito di una «unità di misura» nelle teori� sessuali infantili, in «Il piccolo Hans» 50, é>prile-giugno 1986. ' Finzi Ghisi V., Funzione dei residui in psicoanalisi: il sapere protesi del corpo, in «Aut Aut» 177-178, maggio-agosto 1980. ' Finzi S. e Finzi Ghisi V., NeJ disegno del rebus, cit. 7
PER GLI ABBONATI 1987 . . zn omaggio la prima di .una serie di litografie RITRATTI DI FREUD 1: Freud visto da Guido Crepax Litografia a tiratura di 600 esemplari firmati e numerati in numeri arabi riservata ai primi 600 abbonati del «Piccolo Hans» (più 90 in numeri romani) A partire dal n. 5 3 gli abbonamenti vanno indirizzati a Media Presse, Via Nino Bixio 30, 20129 Milano, e.e. postale 33235201 Per gli arretrati sino al n. 51/52 compreso indirizzare le richieste a Edizioni Dedalo, Casella Pastaie 362, 70100 Bari. Italia, L. 35.000; estero L. 52.500
I sonetti «terribili» di G.M. Hopkins ...make words break from me here all alone Do you! - mother of being in me, heart. (4, strofa 18) Passiamo ora' all'analisi dei sonetti «terribili». Il rapporto di quest'ultimo periodo della produzione poetica di Hopkins con il primo è sintetizzato da Serpieri quando osserva che manca all'ultimo «la tensione estroversa», la ricerca di inscape del mondo naturale mentre si afferma una visione interiore dove «la mente si prefigura lo sfacelo finale della realtà tutta». Nella penombra di questo mondo spirituale al tramonto, gli oggetti naturali si sfumano e si confondono ... e si dà di conseguenza un forte uso di astratti, riscontrabile anche in «No worst» (41): si veda come in quel sonetto pur drammatico nessuna immagine presenti la precisione del dettaglio· della prima maniera (lo inscape grafico dell'oggetto); le immagini invece si affollano in una urgenza emotivi introversa che non ne .consente mai un rilievo assolutamente concreto e tende a connotarle come fantasmi, alquanto informi ma non per questo meno reali, della mente2 • L'«astratto» di cui parla Serpieri prevale laddove la mente, «la stanza delle torture» .è fatta oggetto di rappresentazione, ma anche in questo caso i termini del «paesaggio psicologico» sono continuamente marcati da elementi fortemente concreti, molto individuati: la roccia, l'animale feroce, la spada, la carne, le ossa, il sangue, l'inerte pasta, 9
l'edera delle rovine. In questo senso anche l'ultimo periodo poetico di Hopkins sembra realizzare quanto osservato da Bender e contestato da Serpieri: e che cioè lo stile di Hopkins derivi dalla formula gesuitica di una sensual apprehension of a theological idea3 • In ogni modo basta collegarsi alla grande tradizione del sensuous thought, e alle sue radici cinquecentesche e seicentesche, per constatare che gli ultimi sonetti, che ora studieremo, riprendono due punti centraF del progetto poetico tardo elisabettiano, e poi metafisico. Dai sonetti shakespeariani prendono_ direttamente l'enorme rilancio delle forme pronominali della prima persona, già messo in luce da Melchiori, e sistemato da Serpieri nel triangolo attanziale: 1) «io», attante poeta, soggetto dell'enunciato e non solo dell'enunciazione; 2) «tu», attante amoroso; e 3) il tempo, l'antagonista che annienta. Di questa struttura ternaria studieremo la risoluzione binaria dell'ultimo Hopkins: cioè la sostituzione del «tu» del dialogo con le figure del pensiero antagoniste dell'«io». È interessante notare che i caratteri distruttori del tempo nei sonetti shakespeariani (basti il sonetto 19 - Devouring Time blunt thou the Lion's paw) divengono, come vedremo, i caratteri del Dio dell'agone dei sonetti «terribili»: con l'artiglio del leone, il piede del tempo, la fiamma del sangue, ecc. Dai metafisici l'ultimo Hopkins prende, oltre a quegli aspetti formali analizzati da Gardner, un certo modo di attraversare gii oggetti nella loro presenza sensibile per arrivare a una rappresentazione simbolica, soprattutto per arrivare a un sistema di rapporti interni fra oggetti che si rinviano fra loro. Così gli ultimi sonetti sono chiusi in una lacerata lamentazione che riprende e ripropone con insistenza pochi elementi variati e organizzati intorno a quella funzione dell'«io» che vedremo teatralizzarsi. Dentro questa organizzazione si dispone l'uso di «astratti» riscontrato da Serpieri; forse però la cosa più interessante è 10
che quell'organizzazione è volta a un altro effetto, a un uso nuovo nella scrittura poetica della voce «io»; un uso che ci appare, sul piano particolare, di Hopkins, come una ripresa di Shakespeare e dei metafisici, ma che acquista tutto il suo «rilievo» pensato a partire dagli esiti novecenteschi della funzione pronominale della prima persona. Ciò che di «astratto» rimane in quelle poesie è certo legato alla sostituzione dell'oggetto esterno, vivido e volumin9so, con l'oggetto pensiero, l'oggetto mentale, a cui non vengono però a mancare i connotati di precisione, dettaglio e forte individuazione che abbiamo riscontrato nei sonetti gloriosi. In definitiva proprio questi caratteri, riportati sul nuovo «oggetto», sortiscono i risultati più sorprendenti e danno a quei testi il loro tono nuovo, quell'effetto di modernità e di novità. Ora ci faremo introdurre nell'analisi dei sonetti «terribili» dal sonetto 69 - The shepherd's brow, fronting forked lightning, owns - che vedremo prima da un punto di vista letterale e formale. Il sonetto è del 1889, l'anno della morte del poeta avvenuta 1'8 di giugno, più precisamente è del 3 aprile. Il 17 marzo aveva scritto il primo dell'89 il n. 50 - Thou art indeed just, Lord, if I contend - e il 22 aprile doveva scrivere il terzo e ultimo sonetto, pochi giorni prima di morire, il n. 51, «To R.B.» - The fine delight that fathers thought; the strong. Si tratta di sonetti di struttura miltoniana, che seguono lo schema ritmico italiano con la sestina C-D-C-D-C-D-, che però nel 69 diventa C-C-D-C-C-D. La concentrazione linguistica e ritmica di queste ultime opere esclude gli effetti di esuberanza nel metro, la ricchezza continua degli epiteti, la frequenza delle parole composte, ecc. tipici delle opere dei periodi precedenti, del «The Wreck of the Deutschland», dei sonetti gloriosi del '77, e del periodo intermedio che Gardner chiama poesie di Dio e degli uomini. Ne11
gli ultimi sonetti la ricerca deliberata di compattezza si ottiene con una certa limitazione delle innovazioni prosodiche, con l'uso dei decasillabi standard su cui interviene, talvolta, il sistema dei contrappunti che Hopkins aveva studiato proprio in Milton. Ecco il sonetto 69 1 The shepherd's brow, fronting forked lightning, owns 2 The horror and the havoc and the glory 3 Of it. Angels fall, thèy are towers, from heaven - a story 4 Of just, majestical, and giant groans. 5 But man - we, scaffold of score brittle bones; 6 Who breathe, from groundlong babyhoòd to hoary 7 Age gasp; whose breath is our memento mori - 8 What bass is our viol for tragic tones? 9 He! Hand to mouth he lives, and voids with shame; 1O And, blazoned in however bold the name, 11 Man Jack the man is, just; his mate a hussy. 12 And I that die � ese deaths, that feed this flame, 13 That ...in smooth spoons spy life's masque mirrored: tame 14 My tempests there, my fire and fever fussy. Nell'ottava le dominanti fonetiche sono direttamente generate dalle rime /ouns/ e /o:ri/ difatti la vocale posteriore /o/ con le gradazioni /o:/ e /"/ si irradia con ben 23 occorrenze, mentre la /r/ postalveolare s. onora ricorre 15 volte, più ,5 casi di /r/ più o meno desonorizzata e muta. A questa ricorrenza nell'ottava, in connessione con la diffusione sonora delle rime, nella sestina si oppone la quasi sparizione dei due fonemi: /o/ è presente solo una volta nel primo verso, nel dittongo /oi/, e una nel secondo. La /r/ sonora poi è presente una volta sola. L'effetto d'irradiazione delle rime della sestina /" si/ e /eim/ si concentra invece sulle vocali anteriori particolar12
mente nei versi 11 e 12, la /i/ inoltre è presente 6 volte nel verso 9 e 14. Nella prima quartina c'è da notare il parallelismo incrociato fra il verso 1 e 3, 2 e 4. La prima coppia mobilita il gruppo /fr A/ e /fo:/ di fronting forked (1) e il gruppo /frn/ e /fo:/ di from e fall (3). Ma soprattutto il dittongo /au/ unico e semanticamente marcato in brow (1) e towers (3). La seconda coppia è regolata da due parallelismi grammaticali: la tripla sequenza articolo determinativo - nome con le due congiunzioni (2); e la tripla sequenza appositiva (4). La messa in parallelo dei versi 1-3 e 2-4 si oppone però alle rime 1-4 e 2-3, e all'uguaglianza delle prime sillabe dei· versi 1-2 (the) e dei versi 3-4 (of). La seconda quartina è dominata dalla diversione sintattica dell'inciso, indicato dai trattini; i parallelismi si articolano in sistemi diffusi e frammentati che rallentano la gradazione marcatissima, unificante e accelerata del verso 4, nella quartina precedente (;,v d3ASt, m:i d3estik:il, rend d3ai:int grouns). Il rallentamento del verso 5, dopo la rottura dell'inciso, è anche dato dalla doppia coppia di allitterazioni in /sk/ e /b/. Con la bilabiale occlusiva si determina la serie semanticamente decisiva della quartina. Insieme alla /e/ e /i/, �ongiunte o separate, siamo al nucleo sonoro e semantico di questi versi: nel verso 6 /bri:0 / e /beibihud /; nel verso 7, oltre a /eid3 / abbiamo /bre0/, nel verso 8 /beis/. Il passaggio alla bilabiale nasale/m/ domina la citazione latina del verso 7. Il respiro, l'infanzia, l'età e la melodia del basso suonata sulla viola, questi i nuclei messi in rilievo, incastonati intorno all'antico adagio del memento mori. Sintatticamente infine la quartina è strutturata dalla sequenza pronominale /ui/ (5), /hu:/ (6), /hu:s/ (7), /u;,t/ (8). La sospensione interrogativa chiude l'ottava. Nella sestina rit�oviamo /ei/ in dittongo nella rima. 13
L'opposizione spaziale del basso e dell'alto, centrata sull'alto dell'angelo e della torre cui si oppone sulla terra il pastore, nei primi quattro versi, e centrata sul palco del supplizio e sul raso terra del bambino, nei secondi quattro versi, si localiz;za sulle diverse _parti del corpo, alte e basse appunto, nel verso 9. Questo verso sembra anche condensare incupendola e volgarizzandola l'opposizipne di suoni che si fronteggiano nell'ottava. Il fragore.del tuono, che accompagna il fulmine, e quello delle torri che crollano si oppone al lamento maestoso degli angeli, lamento di giganti. Così come al fragile ansimare del respiro, minaccioso segnale della nostra mortalità, si oppone il tragico tono della nostra melodia di basso. La miseria fisiologica in cui l'uomo è rinchiuso ricorda, nel verso 9, l'espressione galileiana del «transito di cibo» ed evoca certi passaggi dell'inferno dantesco. La densità delle sequenze dei versi 11 e 12 è subito messa in luce da una parziale trascrizione fonetica: Man Jack the man is, just; his mate a hussy. mren d3rek mren <l3A st meit ;} hAsi And I that die these <leaths, that feed this flame, rend ai dret dai dae8s dret fleim Nell'esclusiva ricorrenza delle vocali anteriori /re/ /e/ /i/ spicca /a/ centrale e /A / posteriore, la velare della rima. Particolarmente marcata la sequenza del verso 12 nelle declinazioni del pronome dimostrativo. La tonalità vocalica è mantenuta nei due versi successivi, dove si introduce come unica variazione /u/ in due monosillabi contigui quasi perfettamente allitteranti / smu:d/ e /spu:ns/ . 14 That... in smooth spoons spy life's masque mirrored: tame smu:d spu:ns ai ai My . tempests there, my fire and fever fussy. ai ai ai A l.
Nei quattro versi finali la concentrazione dei rapporti fonetici è massima, come l'esecuzione a voce alta lascia subito intendere. La quantità di monosillabi fna loro risonanti crea un effetto molto marcato, con una co,stante articolatoria fra le vocali basse /re/ e /a/ e l'alta /i/. Il climax è al suo apice nel dittongo /ai/ che sottolinea non solo la massima distanza articolatoria, ma anche il vertice di drammatizzazione semantica. Basta riportare il primo abbozzo degli ultimi due versi per vedere dileguarsi, in una versione sintattica appianata, tutta quella perfetta concentrazione, insieme al gioco del dittongo /ai/. In spoons have seen my masque played and how tame My tempest and my spitfire freaks how fussy. Lo spitfire si è come decomposto, nella versione finale, in spy e fire; mentre i freaks, taciuti, sono entrati nello specchio mirrored, della seconda versione, a rappresentare l'immagine stessa del poeta riflessa nel cucchiaio ben lucidato. Il sonetto 69 con la sua struttura compatta rappresenta un punto finale, un esito definitivo verso cui tendono tutti i sonetti «terribili».· Come avremo modo di seguire nelle prossime campionature del nostro svolgimento tematico, in tutti quei sonetti persiste fittissima la rete dei parallelismi fonologici e grammaticali. Ciò che muta rispetto ai sonetti gloriosi è messo in luce da Serpieri, il quale osserva: Il fortissimo parallelismo fonologico permane, ma non corrisponde più in alcun senso ad un parallelismo ontologico: si incanala piuttosto verso una struttura modulare, priva di soluzione verticale, internamente drammatica•. Dunque prevale nell'ultimo Hopkins un sistema binario esclusivamente «psicologico» (in opposizione al precedente sistema· «ontologico»): 15
Qui, in altre parole, non c'è più folgorazione anagogica di una realtà binaria e miracolosamente «una»; e quindi mança una struttura ruotante intorno alla risoluzione di una coppia metaforica. Si dà, invece, una tensione «introversa», in base alla quale la realtà naturale si occulta fino a diventare un drammatico paesaggio della mente. Non potendo più raggiungere la sintesi mistica, la paradossale unione dei contrari, il linguaggio trova una sistemazione parallelistica nella struttura modulare di ritorni sintagmatìci e lessicali, con equivalenze verticali che ne legittimano la solidarietà interna5 • Questo funzionamento potrà essere verificato nelle pagine successive, dove, anche se non insisteremo ulteriormente sulla distribuzione dei fonemi, alcuni versi inscenano una tale ricchezza di equivalenze da non poter sfuggire al lettore avvertito, il quale per una valutazione di questo tipo nell'insieme dei sonetti «terribili» potrà senz'altro rifarsi al bel saggio di Serpieri, già più volte citato. Qui segnaliamo solo un fatto generale, che già si è potuto rilevare nel sonetto 69: l'importanza dell'articolazione del fonema /i/, un fonema molto frequente in Hopkins che Serpieri collega particolarmente ai verbi e ai sostantivi che esprimono un'acuta tensione mistica o emotiva, in particolare nei sonetti 40, 45 e soprattutto 41. Come nella sestina del nostro sonetto i fonemi /a/ e /i/ sottolineano la massima distanza articolatoria, con corrispondente massima tensione drammatica, così nel 41 l'alternanza di / /e /i/ «serve a scandire l'onda ritmica, la cui massima altezza è paradossalmepte rovesciata negli abissi della mente, con un senso pauroso di caduta». Eccoci, così, alle soglie di quel «drammatico paesaggio della mente» di cui dovremo ora occuparci. Con il sonetto 69, l'intera serie dei sonetti «terribili» è introdotta dall'immagine dell'Angelus Novus: cadono dal cielo le saette _che spezzano le torri, e insieme gli angeli 16
precipitano, con suono lamentoso di giganti. Tutto è rovina intorno all'osservatore solitario; anche la fragile impalcatura delle ossa sembra dover crollare da un momento all'altro: il beholder questa volta è presente solo per morire le sue morti, nutrire la fiamma delle tempeste, e della febbre rumorosa che in sé addomestica. La raffigurazione di Benjamin dell'angelò di Klee ci presta l'immagine travagliata di un guardiano angelico alle porte del moderno, con il suo insieme di antico e di nuovo: noi lo vediamo sovrastare le rovine del mondo, precipitando lui stesso, come nel dramma barocco tedesco il principe melanconico. Egli vede una sola catastrofe che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l'infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che gli si è impigliata nelle ali, ed è così forte che non può più chiuderle•. Ma l'orrore e le rovine - the horror and the havoc - della prima quartina del nostro sonetto valgono in una letteralità assoluta per l'intero corpo dei sonetti «terribili». Il lampo che abbiamo visto con la sua forza accecante nella seconda stanza del «Wreck» (4) accompagnare la venuta del Cristo, come già nell'Apocalisse, dando all'opera di Hopkins quella scossa divina che permea i sonetti gloriosi, qui è ben lontano. Cristo soprattutto è lontano: invocato e assente in tutti i sonetti «terribili»; e qui, nel sonetto 69, neppure nominato, neppure alluso. Solo la prima quartina porta i segni di una presenza spostata, di una mancanza segnalata dal pastore, che non è il divino pastore biblico, dagli angeli, che precipitano, e dal cielo che si chiude su di loro. Ma di Dio, e della sua gloria, nessuna traccia, solo il lamento dei giganti, lo sterminio dell'antica dinastia di dei, precedenti non solo al cristianesimo, ma persino all'insediamento degli dei olimpici. Sono resti 17
pagani che affiorano, e che ricorrono in tutta la poesia di Hopk.ins. I lampi di primavera tra cerchie folte d'erba colpiscono le orecchie di un osservatore che vede sui prati lieti balzare gli armenti cari a Venere, del De rerum natura. Ciò che egli sente fortemente è un'eco dell'antica dolcezza del giardino dell'Eden. Le uova dei tordi paiono riprodurre in piccolo minimi cieli, mentre il fischio del tordo colpisce l'orecchio come lampi: è il sonetto glorioso «Spring» (9): Thrush's eggs look little lcw heavens, and thrush Through the echoing timber does so rinse and wring The ear, it strikes like lightnings to hear him sing; (9, versi 3-6)7. Certo questo è ancora il lampo della maestà e dell'amore del «Wreck», nella delizia di una natura che, dentro la grandezza di Dio, porta i segni del suo splendore pagano. Ma come è diversa la saetta del nostro sonetto: forked lightning, forcuta rottura figurata nel cielo, forcuta come la lingua menzognera degli uomini, come il piede del capro satanico, degli angeli decaduti che precipitano dal cielo con le saette che portano distruzione. Lontano dall'incanto effusivo dei sonetti gloriosi, qui siamo investiti dal sentimento di una tragedia, dal dialogare interiore di un «io» che si espone con parole che potremmo trovare sulla bocca di Lear, di Macbeth, di Hamlet, se non fosse per un certo modo abrupto, repentino di dire «io», che è così nuovo, rispetto, per esempio, a quello romantico. Un modo moderno, su cui torneremo. Viene al proposito da riferire a Hopkins, quantò egli dice del musicista che forse preferiva: «Henry Purcell» (21). 18 It is the forgèd feature finds me; it the rehearsal Of own, of abrupt sélf there so thrusts on, so throngs the ear. (21, versi 7-8)8
Anche il Gardner9 vede sullo sfondo le tre grandi figure della follia e del dolore della tragedia shakespeariana; nel macrocosmo di sofferenza e di «lamentazione» dei sonetti «terribili» - in particolare dei sonetti 40, 41, 44, 45, 46, 47, SO, 51 e 69 - egli riconosce anche la voce di grandi profeti biblici: Geremia e Giobbe. L'apertura del sonetto SO, ad esempio, è una parafrasi da Geremia 12, 1, mentre altrove risuona il lamento di Giobbe, duramente provato da satana con il consenso del suo Dio. È ancora il lampo forcuto a farci da guida, ora dentro il testo di Shakespeare: siamo nella landa deserta, Lear sotto una violenta tempesta rimane con il suo fool, finché entra Edgardo, condotto come un pazzo attraverso il fuoco e la fiamma dal demonio: con le sue parole e i suoi abiti stracciati entra come un fool raddoppiato. Anche Lear si straccia le vesti, ed esclama: ... unaccommodated man is no more but such a poor, bare, forked animai as thou art (King Lear, III, iv 109-11) . Ma a questo punto il fool, il compagno inseparabile del sovrano, quel nulla che osserva tutto e parla dalla propria casella vuota, interviene e invita il re a chetarsi, proprio come Hopkins invita se stesso alla calma nel sonetto 47, e lo fa in un modo - nota C.C. Abbott10 - che richiama, appunto, il fool di Lear. My own heart let me more have pity on; let Me live to my sad self hereafter kind, Charitable; noUive this tormented mind With this tormented mind t9rmenting yet. (47, versi 1 - 4 )11 Qui, come nell' abrupt self di Purcell, un self separato affronta il poeta, gli si lancia all'orecchio come un lampo per dargli dolorosamente la cognizione della divisione, del suo essere in un punto, esterno a lui, da cui tortura la mente: «tortura la mente a torturare questa torturata mente», che dà voce alla Furia, alla Sibilla in quel dialogo con 19
se stesso che si intrattiene per tutti i sonetti «terribili», e li fa «terribili». Uno di fronte all'altro, come il re e il suo fool, uno che osserva e l'altro che è osservato, e così rovesciandosi nell'altro arriva al nulla, al nothing che è di Lear, che è di Hamlet portato a vedere nel cimitero il fool perfetto, la morte, e infine che è dell'«io» che si dice nei sonetti hopkinsiani della desolazione. È proprio un fool che il poeta evoca in una lettera del 188512 - l'anno di molti dei sonetti in questione: il 40, 44, 45, 46, 47 - una lettera di disperazione, dove è denunciato un illanguidimento della mente e del corpo, che fa pensare a una lettera di Artaud: Devo scrivere qualcosa, anche se non ho poi così tanto da dire. Il lungo ritardo è dovuto al lavoro, all'inquietudine, e al languire del corpo e della mente - così deve essere e così sarà; e infatti per diagnosticare il mio caso (poiché ogni uomo intorno ai quarant'anni è, dicono, medico di se stesso o fool; ma poi chi .è medico di se stesso ha un fool per paziente) (...) per giudicare il mio caso, penso che i miei accessi di tristezza, anche se non toccano il giudizio, assomigliano alla pazzia. Un cambiamento è il solo sollievo, ma questo riesco raramente a ottenerlo. Altre lettere del periodo sottolineano lo sfinimento mentale, la solitudine e l'abbandono in cui viveva il poeta a Dublino, come in esilio. In quel vuoto e in quella improduttività, egli pensò al Dr. Jekyll and Mr. Hyde come a una significativa allegoria della condizione umana, e vide in sé un Mr. Hyde anche peggiore: «my Hyde is worse». Questa divisione in due, così insistente nei sonetti «terribili», è uno sviluppo della situazione già indicata da Poe nell'analisi della sua poesia «The Raven», in particolare di quegli elementi messi poi anche in risalto da Jakobson nel saggio dedicatole13 • In quell'occasione Jakobson ricorda l'ammirazione di Dostoevskij per l'abilità di Poe, e osserva che proprio la situazione di dialogo simulato Dostoevskij 20
riproduce nell'incubo di Ivan Karamazov. «In questa scena l'eroe in preda al delirio interpreta ciò che vede, di volta in volta, come il proprio monologo allucinato, e come l'intrusione di un 'visitatore inatteso'». Hopkins interviene su questa situazione abolendo il gioco alternante della prima e della seconda persona del dialogo «allucinato», fissando tutto l'effetto sull'«io» dialogante, su quella voce solitaria sospesa alla propria enunciazione che caratterizza il tono di questo nuovo, moderno «io». Con questa precisazione acquista particolare valore l'osservazione di Jakobson che segue alla precedente: I due tratti fondamentali e complementari del comportamento verbale sono qui messi in evidenza: ogni discorso interiore è essenzialmente un dialogo; ogni discorso riprodotto è ri-appropriato e rimodellato da chi cita, sia che la citazione in questione sia .presa da qualcun altro o da un momento anteriore del proprio Io (a titolo di ho detto). Poe ha ragione: è la tensione fra questi due aspetti del comportamento verbale che conferisce a «The Raven» - e io aggiungo: a ciò che costituisce il sommo dei Fratelli Karamazov - la loro rie, chezza poetica. E questa antinomia viene a sovrapporsi a un'altra tensione che le è analoga: la tensione fra l'Io (Mai) del poeta e l'Io (le) del narratore della finzione. «Ogni discorso interiore è essenzialmente un dialogo», così la proiezione del fool in Hopkins sta a significare una precisa situazione di linguaggio, dentro cui prendono forza anche i riferimenti ai personaggi della tragedia shakespeariana, e alle invocazioni della Bibbia. I rimandi ad esempio fra il. Lear e il sonetto 69 sono molti. Anche le parole di Macbeth risuonano in Hopkins, quando sembra svegliarsi da un incubo ed esclama: «Ho quasi scordato il sapore della paura. Passato è il tempo, in cui i miei sensi si sarebbero agghiacciati per uno strido notturno... Io mi sono satollato di orrori: lo spavento, familiare ai miei pensie21
ri omicidi, non può farmi più sussultare» (V,v 19-28). In Hopkins tornano le stesse angosce notturne nell'incipit del · · sonetto 45: I wake and feel the fell of dark, not day. What hours, O what black hours we have spent This night! what sights you, heart, saw; ways you went! And more must, in yet longer light's delay. With witness I speak this. But where I say Hours I mean years, mean life. And my lament Is cries countless, cries like dead letters sent To dearest him that li.ves alas! away. (45, versi 1-8)14 • Hopkins sente il monte della notte, un patibolo di ossa costruito in lui - al verso 11 dello stesso sonetto 45: bones built in me - su cui sale con witness, come noi tutti saliamo sul palco eretto di fragili ossa - al verso 5 del sonetto 69: we, scaffold of score brittle bones - e di qui la mente ha montagne, rupi precipitose dinnanzi a sé, sotto di sé - al verso 9 del sonetto 41: O the mind, mind has mountains; cliffs of fall I Frighful, sheer ... E qui, in questa corn1ce di veglia e di solitudine, la mente ingaggia la sua battaglia, la battaglia con l'angelo di Dio, con Dio stesso che dà i suoi colpi come il peggior nemico. E non potrebbero essere più duri quei colpi. Ma non dovrebbe Egli essere amico? Perché calca come una roccia il piede destro? Perché pianta sopra il suo fedele servitore una zampa di leone? Il poeta nella battaglia invia lettere morte al nemicoamico lontano, lettere che non arrivano e tornano a lui, solo lettera morta su quel suo mucchio di ossa frante dentro cui rovista, nel buio, con tenebrosi occhi. 22 But ah, but O thou terrible, why wouldst thou rude on me Thy wring-world right foot rock? lay a lionlimb against me? scan
With darksome devouring eyes my bruisèd bones? and fan, O in turn of tempest, me heaped there; me frantic to avoid thee and flee? (40, versi 5-8)". Wert thou my enemy, O thou my friend, How wouldst thou worse, I wonder, than thou dost Defeat, thwart me? (50, versi 5-7r6 Nell'orrore della lotta con il suo Dio, il gesuita scrupoloso e pio parla della crudeltà dell'affrontamento, della crudeltà del nemico come ne parlano in certe pagine Lautréamont o Baudelaire: in campo è un essere mostruoso e vampiresco, un essere che esce da un enorme crogiuolo, con tradizioni millenarie alle spalle condotte a un punto di rottura. Allora l'orrore del dialogo che il pensiero tiene senza risposta, senz;a riparo, diviene una forma del sublime, un modo di ripercorrere, nella sua ampiezza, la storia della lotta dell'uomo con il suo Dio. Quelle lettere morte ritornano nella vegli<1. della mente fissate nella divisione, mostrate al pensatore nell'immagine riflessa, in cui si vede, come se perfidi spiriti gli presentassero un metallo lustro nel quale scorgere il suo «io», pallido per le notti vegliate, e melanconico. Ma a differenza di Anselmo nel Vaso d'oro di Hoffmann, cui si riferisce questa immagine, Hopkins non esce, non incontra un archivista pronto a guidarlo, non dorme il sogno che restituirà d'incanto le pagine colme della bellezza di Serpentina. Hopkins è alle porte del moderno, serrato contro la superficie riflettente della pagina, chiuso in quell'insuperabile dodicesima veglia: a lui non si schiude la grande via romantica del sogno di Hoffmann, né può vincere la minaccia del tormento e della follia tenendosi all'al. tezza dei sogni, fedele alle loro visioni. Il salto fra invisibile e visibile non si colma, e Hopkins non dorme. Nella notte, nell'oscurarsi di tutto in «sovrumani silen23
zi», Hopkins legge, come dalle foglie della Sibilla, smembramento e rovina. «Spelt from Sibyl's leaves» (32): è que _sto il titolo del sonetto che, nella sua opera, fa da passaggio verso i sonetti «terribili» e qui comincia quel dialogo interiore che segna le poesie successive: ...Heart, you round me right With: Our évening is aver us; our night / whélms, whélms, and will end us. (32, versi 7-8)17 Nel mondo oscurato e smembrato si è introdotta una divaricazione insormontabile, una disgiunzione che si spartisce ogni cosa distribuendola su due spole, una nera e una bianca, come due ormai sono le immagini del poeta che si osserva, e si parla come Amleto, o come Lear, come Lear e il suo fool. E nelle sue parole, nella sua mente i pensieri stridono contro i pensieri: ...ware of a world where but these / two tell, each off the other; of a rack Where, selfwrung, selfstrung, sheathe-and shelterless, / thoughts against thoughts in groans grind. (32, versi 13-14)" Pensieri contro pensieri (41), e cuori che stridono contro se stessi (46) come denti dei dannati gettati nella Geenna del fuoco: la condizione consegue strettamente al momento in cui Hopkins ha visto quell'essere che in ognuno alberga, quel myself, parlare, scandire, gridare: Each mortal thing does one-thing and the same: Deals out that being indoors each one dwells; Selves - goes itself; myself it speaks and spells; Crying What. I do is me: for that I carne. (34, versi 5-8)'9 Anche la pula va divisa dal grano (40), anche le membra di chi combatte con il suo angelo, con il suo Dio, vanno divise, e chi festeggiare? L'eroe che lo scagliò giù? 24
O colui che lo combatteva? Chi dei due? L'uno e l'altro? - Cheer whom though? the hero ...or me that fought him? O which one? is it each one? (40, versi 12-13). Ogni cosa divisa, nella solitudine della men. te in faccia a se stessa, nella tensione da pensiero a pensiero: il discorso continua, ma ha vie impervie, non esplorate, sospese in alto, in luoghi dove la nostra resistenza non regge a lungo quella scoscesa profondità, quella vertigine da funambolo; la mente allora si sperde, la mente allora ha montagne: O the mind, mind has mountains; cliffs of fall Frightful, sheer, no-man fathomed. Hold them cheap May who ne'er hung there. Nor does long our small Durance deal with that steep or deep. Here! creep, Wretch, under a comfort serves in a whirlwind: all Life death does end and each day dies with sleep. · (41, versi 9- 14)20 Ma fermiamoci un attimo, e torniamo al sonetto 69 da cui siamo partiti, usiamolo ancora, fino alla fine della sua analisi, come introduzione. Torniamo a Shakespeare, e agli elementi tematici principali del nostro s�metto. Nella prima quartina abbiamo visto la rovina degli angeli; nella seconda, e nella prima terzina il tema centrale è l'uomo e la sua miseria. Nell'ultima terzina il terzo tema: l'«io» prende la parola in prima persona. L'allineamento dei tre temi ci mette davanti a una sorta di tavola prospettica dei periodi di scrittura di Hopkins. Del primo tema degli angeli comprendiamo ·subito che si tratta della trasformazione del grande tema della natura e del trionfo di Dio visto all'interno dell'ultimo periodo di scrittura. Del tema dell'uomo comune sappiamo che è stata proprio l'irruzione della lingua degli uomini, e delle loro 25
azioni a spezzare la mistica unione del poeta con Dio e la sua natura. Mentre dell'«io» che chiude il sonetto sappiamo che è il vero attante, il motore di tutto il dialogante periodo dei sonetti «terribili». Shakespeare offre il precedente più esplicito al tema dell'uomo comune: non il contemporaneo Jack, l'uomo di tutti i giorni laborioso e utile, ma il furfante fuori legge, lo shakespeariano Jack-sauce e Jack-slave; così al verso 11 leggiamo: Man Jack the man is, just; che risuona ancora nel conio hopkinsiano del verso 9, sonetto 47: Saul, self; come, poor Jackself, I do advise / You ... La gradazione del sonetto 69 comporta un progressivo drammatizzarsi del discorso, un passare dal tono elevato della caduta degli angeli e dell'umano metafisico memento mori, all'umana miseria e bassezza del «transito di cibo», fino all'angustia dell'«io», maschera deformata nel riflesso. Quel memento mori che è il nostro respiro è come un meccanismo, un ticchettio incessante che nel vuoto della veglia segnala la presenza sinistra della morte. La prima quartina del sonetto 70, «To his Watch», riprende il senso di questa minaccia: Mortal my mate, bearing my rock-a - heart Warm beat with cold beat company, shall I Earlier or you fail at our force, and lie The ruins of, rifled, once a world of art? (70, versi 1 - 4)21 Horloge! d1eu sinistre, effrayant, impassible, Dont le doigt nous menace et nous dit: Souvienstoi!22 È il tema di «L'Horloge» di Baudelaire, oltre che di una poesia di Edward Herbert (frat�llo del più famoso George) intitolata: «To His Watch, When He Could Not Sleep». L'ultima terzina del sonetto 69 è il momento più acuto della gradazione: gli elementi della disfatta ritornano negli 26
accenti dell'«io» che si espone al tormento della propria condizione, che gli si raffigura nel freak, perduto nel testo della seconda versione, eppure presente nel riflesso del cucchiaio. È quell'«io» il freak, quello che dice: «Io che muoio queste morti, che nutro questa fiamma, / che ... ravviso la maschera della vita specchiata in cucchiai lustri: / vi addomestico le mie tempeste, il mio fuoco,Ja mia febbre incomposta». And I that die these deaths, al primo verso, ricorda il seguente passo da «The Flower» di George Herbert, citato da Gardner: After so many dea.ths I live and write ... It cannot be That I am he On whom Thy tempests fell all night. È dunque la terzina della morte, del fuoco e della tempesta, la terzina dell'anamorfosi dell'«io», nella cui raffigurazione si congiunge il tono metafisico della quartina dell'umano memento mori e la nauseante volgarità della fisiologia intestinale dell'uomo della prima terzina, dell'uomo che si vuota con onta. Infatti il corredo da tavola di cui ci si serve per pietanze liquide , o semiliquide, riflette l'immagine metafisica della vita, facendone sulla sua superficie deformante, nell'occhio riflettente del cucchiaio, un mostro. Il fuoco è quello della natura: un fuoco eracliteo, un fuoco greco che lascia del mondo solo cenere. Così questa terzina, chiudendo quello che fu chiamato il sonetto «cinico» di Hopkins, dà spazio solo alla prima parte di ciò che è formulato nel titolo del sonetto 48: «That nature is a heraclitean fire and of the comfort of the Resurrection». Non c'è conforto di Resurrezione, qui, ma solo consunzione, febbre rumorosa e scomposta. «Cinico» questo sonetto anche per l'incremento disforico che molti temi, altrimenti ricorrenti, qui vengono ad assumere. Si pensi solo al bagliore balenante del foglio d'oro che nel sonetto 7 è devolu27
to a riflettere la vibrante bellezza della natura caricata dalla maestà di Dio. Oppure al gigante Cristo risorto di 4, 33; e anche all'elogio del naufrago in «The loss of the Eurydice» (17): Look, foot to forelock, how all things suit! Che distanza, dal cucchiaio che riflette, dai giganti angelici che precipitano dal cielo, dall'uomo che vive dalla mano alla bocca. Come si è ristretta la vista dell'uomo rispetto a quell'essere tutto composto dal piede al riccio della fronte. E come è conclusiva l'immagine del poeta che si guarda, parlandosi, riflesso nel cucchiaio, conclusiva di tutta la serie dei sonetti «terribili»: quasi un'immagine allegorica, un punto che mostra in un attimo un atteggiamento che è andato crescendo, da componimento a componimento, e qui è tutto fissato, chiuso su se stesso a rivelare la natura di quel dialogo interiore che il poeta ha intrattenuto con il suo freak, con il suo fool. È come se Hopkins da ultimo venendo sempre più raramente a ricevere il rapimento della sua musa, ma cercando comunque la poesia con quel suo mettere in cornice il linguaggio, venisse d'un colpo a trovarsi di fronte a qualcosa di terribile e inaspettato. Da quella cornice da cui aveva visto splendere come da una finestra sul mondo ogni incremento di visione, e da cui aveva ricevuti i serici raggi della luce, egli vede ora farglisi di fronte, come nella dodicesima veglia del Vaso d'oro, una superficie ri'lP.ttente e deformante, che gli nasconde ogni cosa, che gli rinvia una sola figura da cui si ritira con orrore: la sua figura di uomo che ha urlato nella notte, segnato dalla violenza della Furia. La Furia ha gridato su di lui: «lasciatemi incrudelire». 28 My cries heave, herds-long; huddle in a main, a chief Woe, world-sorrow; on an age-old anvil wince and sing - Then lull, then leave off. Fury had shrieked «No ling - Ering! Let me be fell: force I must be brief». (41, versi 5-8)23
Le urla di questo «io» narrato dal poeta, e le urla della Furia aleggiano sopra l'incudine come un vapore, come un homunculus che si torce e scompare nella generale catastrofe, sotto i colpi della Furia: siamo allo spasmo. È questo l'inferno: la nostra vita di qui, l'inferno di Strindberg. E la catastrofe è che tutto continui come prima, come osserva Benjamin. E così quell'«io» che subisce la violenza della Furia vede sul proprio volto riflessa l'opera scomposta della morte che lavora con la febbre, mentre intorno, come Geremia, vede il mondo rifiorire e se stesso, irrimediabilmente, infecondo eunuco del tempo: ...See, banks and brakes, Now, leavèd how thick! lacèd they are again With fretty chervil, look, and fresh wind shakes Them; birds build - but not I build; no, but strain, Time's eunuch, and not breed one work ·that wakes. Mine, O thou lord of life, send my roots rain. (SO, versi 9-14)24 Un frammento non datato anticipa la situazione dell'ultima strofa del sonetto 69, e presenta una Speranza che rivolge a Cristo lo specchio della mente, ma l'immagine è sbiadita, e così lei si mette a strofinarlo, pulisce lo specchio in ogni sua parte e non smette fino allo sfinimento. Ora lo specchio assorbe là luce, ma dietro alla Speranza c'è solo buio, e ciò che lei riesce a vedere non è Lui, ma solo se stessa. I told you she turned her mirror dim Betweenwhiles, but she sees herself not Him. Una dolorosa brevità chiude lo spazio fra la figura e la sua immagine, fra il poeta e la sua maschera: il piccolo cucchiaio non è lo specchio in fondo alla stanza che riflette tutta la scena come un sole alle spalle degli Sposi Arnolfini di J. van Eyck, e neppure lo specchio che incornicia 29
l'immagine dei sovrani in Las Meninas di Velazquez, dove Foucault cerca l'infinito rapporto che lega linguaggio e pittura25 • Qui è al buio che l'immagine si riflette, e dietro di lei nessuno spazio si irradia, null'altro da vedere oltre al volto di chi parla, visibile solo a lui. Uno spazio stretto intorno a questo due, uno contro l'altro, due del sonetto della Sibilla (32) e due anche della semplice duplicazione, come nel sonetto 4 6, dove udiamo i nostri cuori stridere contro se stessi - We hear our hearts grate on themselves. Con gli ultimi versi del sonetto 69 siamo arrivati al quadro più segreto della condanna, al punto ultimo del dialogo dei sonetti «terribili», dove «io» viene sul palcoscenico di morte a mostrare questo, a ricevere, nella moderna landa, la ferita della lancia, come il re pescatore della W aste Land, la ferita che lo rende sterile, incapace di aggirare lo scoglio periglioso, il volto che pietrifica della Medusa. Incapace di procedere per via indiretta, su quel palcoscenico egli soffre la perdita dell'agibilità cartesiana del larvatus prodeo: egli è per noi il soggetto dell'enunciazione bloccato in giacenza, sospeso come il soggetto della lettera lacaniana en souffrance, inchiodato solo a gustare di se stesso, a farsi rappresentare come quell'«io» e quel riflesso: I am gall, I am heartburn. God's most deep decree Bitter would me taste: my taste was me; Bones built in me, flesh filled, blood brimmed the curse. Selfyeast of spirit a dull dough sours. I see The lost are like this, and their scourge to be As I am mine, their sweating selves; but worse. (45, versi 9- 14 )26 L'inferno è questo gustare di se stesso. Questo peso della parola che «io» deve prendere: in queste condizioni è anche una brevità fra il visibile e il parlato, la stessa brevi30
tà allucinata della sfera dentro cui si chiude l'immagine di Escher nella litografia del 1935: Rand with Reflecting Sphere. Solo una mano, per altro anch'essa riflessa, sostiene nel vuoto la lucida palla dentro cui si arrotonda la scarna figura del pittore, con il suo mondo dietro. La sospensione di: questa cornice ci porta l'immagine deformata dal grigio indistinto del fondo che rende meglio l'idea funambolica della condizione d'enunciazione in cui viene a trovarsi l'«io» che parla il poeta Hopkins. L'idea di quel luogo di vertigine, d� quel ponte su cui ci ha guidati. Lì misuriamo la tensione che ha assunto per Hopkins la doppia antinomia illustrata da Jakobson, da una parte, fra ogni discorso interiore che è già un dialogo e la ripresa di parole di un altro o di momenti passati del proprio «io»; e dall'altra, l'antinomia fra «io» del poeta e «io» del testo, l'«io» della «finzione». E infine misuriamo anche su cosa sia stesa la fune sulla quale Hopkins è stato costretto a mantenere l'equilibrio, quella fune ondeggiante nella bufera di cui parlava Yeats, e che Melchiori recuperava al cammino dei suoi «funamboli»21 • Ermanno Krumm 31
NOTE ' Riprendiamo l'analisi al punto a cui l'abbiamo lasciata nel n. 48 della rivista, nel saggio intitolato «Il disagio dell'albero: dialogo parallelo di G.M. Hopkins». Le citazioni dalle poesie di Hopkins riportano la numerazione progressiva adottata dopo l'edizione del 1930 di C. Williams; per l'edizione inglese: Hopkins G.M., Poems by W.H. Gardner, London 1948; la traduzione italiana a cura di Augusto Guidi, Guanda, 1965, da cui preleviamo le traduzioni rioortate in nota. ' Serpieri A., Hopkins - Eliot - Auden, saggi sul parallelismo poetico, Bologna 1969, p. 92. ·, Bender T.K., G.M. Hopkins, The Classica[ Background and Critica[ Reception of his Work, Baltimore 1966, citato in Serpieri, cit., p. 56. ' Serpieri, cit. p. 93. ' Ibidem, pp. 82-83. ' Benjamin W., Angelus Novus, Einaudi, Torino 1962, pp. 76-77. ' «Somigliane le uova dei tordi minimi umili cieli, / il fischio del tordo, per gli echeggianti tronchi, sciacqua, / torce l'orecchio, lo colpisce come lampi». ' «È il volto segreto che mi trova, è la rappresentazione / del suo sé repentino che si lancia nell'orecchio e l'empie». ' Gardner W.H., Gerard Manley Hopkins, 2 voll., Martin Secker & Warburg, London 1944 e 1949. È lo studio più completo su Hopkins; prezioso per la quantità di informazioni e di analisi contenute anche se muove da un assunto interpretativo difficilmente utilizzabile. '° Cfr. Gardner, cit., vol. I, p. 177. Per la questione del fool, si veda, in particolare: Nadia Fusini, «Laipazzia d'Amleto», in «Il piccolo Hans» n. 18, e nello steso numero i contributi alla discussione di Alessandro Serpieri. 11 «Laciatemi avere maggiore pietà del mio cuore; lasciatemi / in futuro vivere cortese al mio animo triste, / caritevole; non vivere questa torturata mente / a tormentare ancora con questa torturata mente». " Lettera a Robert Bridges, University College, Dublin, May 17, 1885, in G.M. Hopkins, Poems and prose selected and edited by Gardner W.H., Penguin Books, 1981, p. 202. " Jakobson R., Questions de poétique, Ed. du Seuil, Paris 1973; il saggio «Le langage en action», p. 209. '' «Mi desto, e sento .il monte della notte, non il giorno. / Che ore, che ore nere abbiamo speso / questa notte! Che viste vedesti, o cuore! Che vie andasti! / E altre ne andrai nel più lungo indugio del giorno! / Da esperto parlo. Ma dove dico ore, / intendo anni, una vita. E il mio lamento / son pianti senza numero, morte lettere inviate / a colui che vive, ahimé, lontano». " «Ma oh, tu terribile, perché vuoi duro sopra me / calcare come roccia il destro piede, torturatore del mondo? Piantarmi sopra una 32
zampa di leone? / Rovistare con tenebrosi occhi nelle mie ossa frante?/ Squassare/ oh, in turbini di tempesta, me qui rammucchiato frenetico di schivarti e fuggire?». " «Se fossi il mio nemico, o tu mio amico,/ come potresti peggio che tu fai, io mi chiedo, / sconfiggermi, frustrarmi?». 11 «Cuore, tu mi incingi/ di queste parole: la nostra notte incombe e ci annullerà». " Ponete mente a un mondo ove contano codesti soltanto, l'un contro l'altro; a una tortura / ove, carnefici di loro stessi, autotormentatori; senza protezione, senza riparo, i pensieri stridono contro i pensieri, in lamenti». ' 9 «Ogni cosa mortale / fa una e una medesima cosa: conclama quell'essere interiore / che in ognuno alberga; si attua, corre le sue vie, io stesso / parla, scandisce; grida: ciò che faccio sono; per questo venni». ' 0 «Oh, la mente, la mente ha montagne; rupi precipitose,/ paurose, impervie, ma da uomo esplorare. Le tenga a vile/ sol chi mai vi stette sospeso. Né lungamente la nostra poca/ resistenza regge a quella scoscesa profondità. Qui! Striscia,/ o misero, sotto un conforto che assiste in un vortice; ogni/ vita la morte finisce e ogni giorno nel sonno muore». " «Mio compagno mortale, che col tuo freddo ritmo/ t'accompagni al caldo ritmo del mio cuore, chi di noi due/ verrà meno per primo alle sue forze, e giacerà, / mucchio di devastate rovine che furono una volta un mondo d'arte?». 22 «Orologio, sinistro iddio, impassibile / spaventose I! cui dito ci minaccia/ e ci élice: «Ricordati!». Traduzione di Luigi de Nardis; I Fiori del Male, Feltrinelli, 1964, p. 148. " «I miei gridi si ammassano in lunghe greggi, si ammucchiano in un prepotente, sovrano / dolore, sconforto del mondo; sopra incudine antica si torcono e cantano,/ poi si sopiscono e scompaiono. La Furia aveva urlato: «nessun indugio;/ lasciatemi incrudelire! Fatalmente devo essere breve!». " «Vedi, ripe, arbusti, / ora, come son folti di foglie! Di nuovo li allaccia/ il cerfoglio sinuoso, oh guarda! e il fresco vento le squote. / Edificano gli uccelli, ma non io, no: soltanto mi sforzo, / enuco del tempo, né genero opera che si desti al giorno. Mandami, o Signo1'e di vita, oh, manda la pioggia alle mie radici». " Foucault M., Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1967, parte I, «Le damigelle d'onore». " Io son fiele, son bruciato nel cuore. Il più segreto decretò divino/ volle che gustassi l'am. aro, e gustassi di me stesso;/ le ossa eresero, la carne vestì, e colmò il sangue la maledizione./ Un fermen to prodotto dal mio spirito guasta una inerte pasta./ Intendo che i dannati sono così, afflitti/ come son io, dal loro proprio sudare, ma con maggior dolrre». " Il riferimento è al saggio dedicato a Hopkins ne I funambuli di Giorgio Melchiori, Einaudi, Torino 1963, e al nostro saggio, già citato, nel n. 48 della rivista. 33
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