Il piccolo Hans - anno IX - n. 36 - ottobre-dicembre 1982
ogni ontologia, chi scrive muove da una convinzione, che il campo dell'analisi è incredibilmente angusto, esso è tutto ciò che è esposto allo sguardo. Lo sa l'essere che per essere «medesimo» ha bisogno dell'ostilità del guar– dato, dell'altro, ma lo sa anche la forma/desiderio perché onnivora, che matura e si stacca dal ramo d'oro dell'even– to come se pro-muovesse da un'esistenza. Questa ostilità, questa resistenza a ciò che non ha resistenza è stata chiamata, dalla filosofia pre-romantica, coscienza. Su questo percorso lo sguardo non incontra che banalità, ecco l'ostacolo: io conosco la resistenza al vissuto perché conosco la minaccia che si esaurisce al di là di ogni etica, nell'epifania del volto - qualcosa che pre-esiste all'idea di altro da me, indipendentemente dalle conseguenze. Se la coscienza di classe - come scrisse Domarchi durante la stagione fenomenologica - è in pri– mo luogo coscienza del tempo, ogni crisi del medesimo con l'altro è un'alterazione della durata, un collasso del vissuto, ma anche la prova di una percezione psicologica che va sotto il nome di sensazione. Lasciamo ad Heidegger l'infelice compito di indicarla come l'uscita di servizio dell'orrore che l'esserci annuncia al mondo e vediamo ciò che la resistenza significa traguar– dando la sensazione attraverso la coscienza. Lévinas dice che questo traguardo, come lo strumento omonimo, ha due mire, l'una, della negazione totale - speranza dell'o– micidio - l'altra, di creazione assoluta - omicidio della speranza. In mezzo, ma non preda, sta il volto «ancora cosa tra le cose», che apre un varco nella forma che lo delimita. Che cos'è questa forma è presto detto: «È l'e– spressione che il volto introduce nel mondo e che non sfida la debolezza del mio potere, ma il mio potere di potere.» La neutralizzazione di Lévinas operata da Jac– ques Derrida in La scYittura e la differenza, ha le sue radici edipiche qui, nella paura che il disvelamento del 216
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