Il piccolo Hans - anno IX - n. 36 - ottobre-dicembre 1982

rà», che è come dire, aggiunge Freud, certo l'inconscio è ignoto ma arriveremo a spiegarlo. Ma sappiamo da successive notizie sulla vita di Hans ormai uomo, che Hans non è diventato un nevrotico. Il suo «luogo della fobia» non si è cioè aperto al compro– messo più o meno riuscito che la nevrosi rappresenta. Hans, cioè, non è rimasto un filosofo. Che cosa è avvenuto allora? Forse proprio grazie a un'apparizione dell'«appendice in questione», possiamo farci un'idea di quale strada si è aperta per il dopo-fobia di Hans, di cui poco sappiamo se non due cose: che, diventato adulto, non ricorda più nulla della vicenda che lo ha fissato come «il piccolo Hans» e che si è dedicato alla musica. L'appendice si configura in un sogno. Di fronte alla perdita del fapipì, questa volta appare lo stagnaio che ne mette ad Hans uno più grande. Hans si sveglia sod– disfatto, ed è così che si chiude il suo «caso». Dove l'ap– pendice è appunto un'appendice, priva del carattere di «naturalità», ma piuttosto, come l'abbiamo designata nei nostri seminari della «Pratica freudiana», una protesi, la cui funzione è qui di mettere in evidenza il legame tra l'uscita dalla fobia e la tecnica di un artigiano prima, dell'arte poi. Due sono i nostri compiti, dice Freud, che possiamo formulare in questo modo: «dobbiamo trasformare il so– gno manifesto in quello latente, e dobbiamo indicare come, nella vita psichica del sognatore, quest'ultimo sia diventato il primo. Il primo è un compito pratico, spetta all'interpretazione onirica e necessita di una tecnica»: ca– ratteristiche limitate che Freud riserva alla direzione ap– parentemente più promettente, quella che va dalla super– ficie alla profondità. «Il secondo è un compito teorico, che deve spiegare il supposto processo del lavoro onirico e non può essere che una teoria»: il lavoro della teoria 15

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