Il piccolo Hans - anno IX - n. 33 - gennaio-marzo 1982

ne, dissacrazione surreale della mitologia (la cnt1ca del tragico s'accompagna sempre all'irrisione del mito), o sua profanazione? Qui più è esile la tela della narrazione, più si fanno robuste le volte allegoriche. L'origine spettacolare della lingua, la consacrazione primigenia delle cose nella loro edenica nominazione, sono condotte verso la derisione, anch'essa spettacolare. Si può dire che il Parnaso occhieg­ gia coi suoi ridenti boschi sulla cartolina del turista, e Calliope prende il sole nuda (mia difficoltà, una lontana sera di luglio, nel piantare i picchetti della tenda sulla dura roccia alle falde del monte sacro alle Muse). D'altra parte il dio bofonchia nel meriggio greco e suda dalle pagine dell'Infanzia di Nivasio Dolcemare, e l'autore, in­ trappolato nelle divagazioni narrative, sa riprendere il filo, in Angelica o la notte di maggio, esclamando: «Clio, amica mia, qui non mi pare conveniente esercitare il nostro me­ stiere di Icaromenippi», e così torna nella cabina di von Rothspeer delirante per Psiche che dieci volte dalla scena fende la tela per «inchinare lo spettatore solitario». Amore e Psiche tornano ne La nostra anima, e nel Signor Munster Amore e morte tessono l'implacabile scena del dissolvi­ mento all'alba. In Savinio la figura della parodia trova un esercizio che fa del travestimento dissociazione, della ripetizione squarcio grottesco sulla differenza. La eroica visita romantica al mito è finita. Scherno dei materiali linguistici, non più connessi al discorso «morale» o «vi­ sionario» o «gnomico», ma lanciati come oggetti nel tu­ multo d'un esperimento pluriartistico e ipersegnico. Alle­ goria, in quanto disposizione in basso di frantumi in una storia naturale che si sottrae alla mediazione simbolica. Savinio è forse la nostra sola avanguardia. Leggendo Afrodite, di Pierre Louys, penso più all'amico di Gide, al suo compagno di scuola dell'«École Alsacien­ ne», al testimone del giovanile sogno gidiano di una scrit- 191

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