Il piccolo Hans - V - n. 20 - ottobre-dicembre 1978

in quanto collegato al desiderio e dunque fatalmente luogo anche di operazioni difensive. L'esemplificazione sveviana, quantunque sommaria, ha riportato il discorso all'uso del sogno in un testo letterario come aggiunta nella forma di una «man­ canza», soddisfacimento ipotizzato, tentato, del «desi­ derio dello scrittore». La possibile costruzione retorica del sogno quale figura narrativa viene a cercare soste­ gno su due campi diversi e tuttavia contigui. Così si tocca, per forza, la questione del soggetto. In ogni so­ gno è profondamente radicata l'istanza di un «io», di un soggetto: ciò che chiamiamo l'«io» non è mai assente dalla scena del sogno. Ci si può tuttavia inter­ rogare sulla natura dell'io sognato, e dunque sulla qua­ lità specifica che, per il semplice fatto della introdu­ zione di un sogno in un racconto, possono assumere l'io narrante e l'io narrato. Il rapporto fra dormiente e sognante è investito da Blanchot in un capitolo («Re­ ver, ecrire») dell'Amitié: « dans Je reve, qui reve? Quel est le Je du reve?» ... « Intrigue e interrogation qui nous renvoient à un'expérience, depuis quelche temps souvent décrite, celle de l'écrivain, lorsque, dans un oeuvre narrative, poétique ou dramatique, il écrit 'Je ', ne sachant qui le dit ni quel rapport il garde avec lui­ meme...». Blanchot procede nell'analisi di un « sog­ getto», di una «presenza» che dimenticherebbe o la­ scerebbe cadere la nostra capacità di esservi presenti, giacché, in conclusione, «le moi du reveur n'a pas le sens d'un vrai moi». La conclusione (provvisoria) ne­ cessita di qualche chiarimento: al limite, sostiene Blan­ chot, si potrebbe dire che non c'è nessuno nel sogno e dunque, in certo modo, non c'è nessuno per sognarlo; di qui il sospetto che, là dove sognamo, ci sia qualcun altro che sogna e che ci sogna, qua:lcuno che, neU'atto di sognarci, è sognato a sua volta da un altro, presen- 21

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