Il piccolo Hans - anno V - n. 18 - aprile-giugno 1978

stessa della scrittura letteraria: in che misura la scrit­ turn pertiene alla ragione o/e alla follia. In questo approccio viene fuori un imbarazzo: il di­ scorso della follia sembra presentarsi fatalmente in op­ posizione al discorso normale. Già l'aggettivo « normale » è depistante, perché sottintende alla follia lo statuto di infrazione a una n@ma, statuto ohe non è affatto pacifico. Il problema o impasse è, sia pure ristretto al capo dello scrivere, quello fissato da Derrida in « Cogito e storia della follia», che prende a pretesto il libro di Foucault, « Storia della follia». Il punto di partenza è l'afìfermazione foucaultiana secondo cui « non si può parlare della follia che in relazione a quest'altra forma di follia che permette agli uomini di non ,essere folli cioè in relazione alla ragione» e pertanto ogni parlare (scrivere) della follia avviene fatalmente dentro un logos della ragione... Ma, sottolinea Derrida, riprendendo il suo recensito, la « follia è l'assenza d'opera». Qui mi sembra indispensabile citare l'intero capoverso: « Ora l' oip era comincia con il discorso più elementare, con la prima articolazione di un s,enso, con la frase, con il primo abbozzo sintattico di un "come tale", poiché comporre una frase significa manifestare un senso pos­ sibile. La frase è per essenza normale. Essa porta la normalità in sé, vale a dire il senso... Essa porta in sé la normalità e il senso, qrualunque sia lo stato, la sa­ lute o la follia di colui che la proferisce, o attraverso cui essa passa e su di cui o in cui si articola. Anche nella sintassi più povera, il logos è la ragione, e una ragione già storica. E se la follia è, in generale,... l'assenza d'opera, allora la follia è anche per ess · enza e in gene­ rale, il silenzio, la parola interrotta, in una cesura e in una ferita che incidono la vita come storicità gene­ rale... ». Questo dibattito riveribera fatalmente sui presupposti 28

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