Il piccolo Hans - IV - n. 15 - luglio-settembre 1977

specchi senza fondo in cui guardare e guardarsi: ri­ visti nei cineclub, essi hanno ormai assunto tutta l'aura di messaggi lontani nello spazio e nel tempo, e per di più in copia unica; rifatti da chi crede che non sia cambiato nulla, il loro funzionamento o non prende o si scontra con ciò che una volta era taciuto e ben sa­ puto e che oggi, quasi per obbligo, è detto (insoppor­ tabile pornografia, ad esempio). Di fronte alla perdita di quella che è stata la loro funzione, i film sembrano rispondere cambiando lette­ ralmente taglia: o si restringono in una comunicazione sempre più settoriale e marginale, alla ricerca di una zona propria, spazio di sicurezza; o si allargano nel di­ ventare operazioni complessive, dove è significativo tut­ to il ciclo produttivo, e dove anzi il prodotto finale non è percepito spesso che come «residuo»: insomma, l'ac­ cento è distribuito sul «fare», mentre i risultati con­ tano relativamente. (Alberto Abruzzese sostiene da tem­ po, e recentemente anche in «Lavoro astratto e lavoro concreto nei processi di produzione artistica: Holly­ wood», su Sociologia della letteratura, 1977, l'esempla­ rità del cinema americano classico come momento in cui si sperimenta «nella struttura stessa dei suoi appa­ rati il punto massimo di integrazione possibile tra la­ voro concreto e lavoro astratto»; e insieme valorizza il secondo tipo di lavoro sul primo, incapace di rendere conto del funzionamento dell'industria culturale, e arre­ trato rispetto alle possibilità che si possono sviluppare da essa. Ora non so se la caduta verticale della funzione che è stata del cinema ne disgreghi anche l'assetto di industria culturale: quello che so è che il cambiamento di taglia nei film di cui ho appena parlato arriva a valo­ rizzare proprio le forme di lavoro concreto; la dialettica tra le due forme di lavoro, dunque, non si risolve nel- 1'ottimismo - faccio per dire - di Abruzzese, ma mi pare ancora tutta da giocare...). 125

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