Il piccolo Hans - III - n. 11 - luglio-settembre 1976

nel caso di Romiti quella domanda pr-ende origine da un tipo di istanze che Artaud denominerebbe - lamentando l'inadeguatezza e l'equivocità dei termini - «cosmiche» o «metafisiche», e che Mallarmé ricollegherebbe al «grande e puro spettacolo» della «Tragedia della Na­ tura», intesa come colluttazione incessante della luce e dell'ombra, del giorno e della notte, riflessa nell'occhio dell'uomo. A questo punto non resta che da esaminare, sia pur rapidamente, le tappe del percorso, la marcia di avvici­ namento a questo esito centrale, il « progressus » di cui si parlava all'inizio. Ebbene, all'indomani del giovanile apprendistato - ove dapprima il morso espressionista porta Romiti a privilegiare contenuti, per così dire, «violenti», e ma­ gari anche solo nominalmente violenti (le Carcasse e le Macellerie degli anni 1947-'49), mentre successivamente l'influenza cubista, recepita anche attraverso matrici ita­ liane, trasferisce quella violenza di superficie (di conte­ nuti) direttamente alle forme, e cioè nel corpo e nel cuore stesso della pittura (le Mensole e i Tavoli del 1950-'51, ove l'allusione alle · «machines à coudre», anche esplicitata metonimicamente in titoli quali Stirerie, in­ troduce altresì a una forma di violenza «simbolica») - all'indomani di tale apprendistato, Romiti definisce su­ bito e, si direbbe, in opposizione ad esso, alla sua «vio­ lenza oggettuale», quella che costituirà la prima tappa del suo personalissimo percorso. Una tappa ,(una fase) che copre grosso modo gli anni 1951-1955, e che è con­ trassegnata non più da un rapporto di deformazione (o di scomposizione) aggressiva nei riguardi della realtà, quanto da una volontà di riduzione della stessa nei ter­ mini di una compiuta « figura mentale ». Il ricorso alla natura morta come genere passibile di manipolazioni formali e cromatiche remote dai canoni della mimesi naturalistica, è effettuato da Romiti con una consape- 35

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