Il piccolo Hans - III - n. 11 - luglio-settembre 1976
La mia insistenza sulla salutare prevaricazione del libro nel concreto del dire e dell'operare, nella ricca e varia esperienza della scrittura e del testo è il lato buono di una malinconica perplessità, si può dire di una tetraggine. Se questo è la letteratura, questo che, nonostante la ' «morale» agnostica di Zamjatin, il libro in qualche modo, per tentativi e per fasi, riesce ad abbracciare, se non è quel «luogo frequentabile, ben attrezzato, adatto al tè delle cinque», cui guarda Giorgio Manganelli, una volta tanto davvero non temerario, e non è neppure quell'ancor più pacifico «oggetto di un perfetto meccanismo di regole», ma insomma è - e poiché ho insistito sul realismo e sul rigoglio del lavoro dovrei esserne convinto - un luogo intricato di rapporti, impervio, come rispondere alla domanda sulla destina zione della letteratura? A che serve questo «fitto collo_quiare»? e a chi? a quanti di questa moltitudine pros sima all'esplosione demografica? e perché (la letteratura), se per così pochi, e a che scopo in vigilie come queste? in fondo, perché parlarne? L'ultimo dei miei dubbi mi domanda perché parlare della letteratura, di questa «condizione», di questo «luogo», che il libro ha per lustrato e raffigurato e che io non voglio mettere in dubbio. Tutto passa per la letteratura, e ogni frammento (anche del reale) vi assume forme e sensi peculiari. Ma intanto poche, e troppo esperte, straordinariamente ca paci o lungamente addestrate allo scopo, sono le mani che si allungano per afferrare. Non riesco a vincere l'impressione di uno spreco suntuoso, il senso di colpa di un viatico speciale, da consumare in pratiche clan destine, in isolamenti disperati, non contro ma nono stante ciò che ci opprime e ci minaccia. A un livello qualunque del testo s'aggira il lettore qualunque, ano nimo plurale, innumerabile rapporto sociale, folla im mensa, cui sono negate la conoscenza e la fruizione del- 154
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