Il piccolo Hans - anno III - n.10 - aprile-giugno 1976
biamo tante spese») - può inoltrarsi a cercarseli da sé i ,libri, negli « stacks», corridoi senza luce e senza fine, profondi misteriosi aggroviigliati come i:l ventre della tomba di Tutankamen; dal1e nove di mattina alle dieci di sera. E portarsene a casa in prestito quanti ne vuole. Dieci, quindici, trenta. C'è da sprofondare in un nirvana di rilassato operoso piacere. I duBbi nascono su cosa studiare. Passa qualche giorno e - quale che sia roggetto su cui uno è venuto a lavorare (nel mio caso, l'America della fine del secolo) - si fa strada il sospetto che ci sia un oggetto migliore, lì, proprio a portata di mano. Perché non studiare Harvard? I suoi profess,ori, la sua biblioteca. La sua organizzazione, la sua funzione nella società civile americana. Harvard seleziona e prepara la classe dirigente colta dell'America. Non è dunque l'unico oggetto di studio che valga la pena di affrontare? Ed ecco che uno mette da parte i libri le schede gli appunti, mette da parte il progetto originario, e si abban dona con entusiasmo a questa nuova idea: guardarsi intorno; capire come funziona una delle più grandi, efficienti,. prestigiose organizzazioni culturali del nuovo mondo. Su Harvard, e su Boston, esiste un piccolo classico, che si riprende in mano con piacere: « The proper Bo stonian» (« Il vero bostoniano») di Cleveland Amory (1947). La fascinazione di Harvard - e di Boston - qui è dispiegata al suo meglio: ci sono le grandi famig,lie, i loro riti, ,1e ilorio fortune, i loro :inwecci. La foro pronll!Ilcia, inimitabile. Un non « vero bostoniano» potrebbe anche riuscire ad entrare in questa Università. Ma non riusci rebbe mai, questo è certo, a pronunciare Harvard co me si deve. Cioè ·« Hahvud» (ma attenzione: nell'in glese di Clev e land Amory: chissà poi come si pronuncia « Hahvud»). Chissà se a gua!'darsi intorno, le cose _ oggi stanno 181
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