Il piccolo Hans - anno I - n. 1 - gennaio-marzo 1974
così bene in Breton, di appartenere a una totalità, un universale, appoggiandosi precisamente sulle religioni orientali, andrebbero chiariti piuttosto a partire dalla psicoanalisi, come riallacciamento allo stato infantile di assoluta dipendenza, figura residua e nostalgia del padre, di quel « padre grandiosamente magnificato» di cui parla Freud (Il Disagio della Civiltà), come re gressione dell'io verso un io puramente edonistico, per esclusione del mondo esterno. Con ciò si metterebbe anche in evidenza quanto la « triangolazione edipica» 2 pesasse sulla concezione dell'amore comune a tutti i surrealisti, che è particolarmente reazionaria. Con Artaud, siamo su un terreno tutto diverso. La preoccupazione politica vi occupa il primo posto. Ci vuole l'ignoranza crassa del testo di Artaud e la pro fonda idiozia di uno storico revisionista per dichiarare, come venne fatto nel corso di un precedente colloquio (Cluny), che il pensiero di Artaud non è lontano da una « tradizione dell'oggetto-oriente in Europa», per spac ciare delle contro-verità come quella che consiste nel- 1'affermare che Artaud non si è interessato alle rivolu zioni leniniste del suo tempo (è proprio il caso di ricor dare il « messaggio rivoluzionario» dove è riconosciuta la realtà della lotta di classe, meglio: la necessità della presa del potere della macchina di stato da parte del proletariato e della sua dittatura, cosa che Artaud chia ma, riferendosi precisamente a Lenin, una « organizza zione transitoria e punitiva», una « applicazione di una giusta crudeltà»), e ci vuole una disonestà inestirpa bile per accusare, colmo dell'odiosità, Artaud e i cinesi (significativo questo accostamento, da solo giustifiche rebbe la fondatezza del mio intervento!) di essere re sponsabili del massacro non di 80.000 indonesiani (il nostro scrupoloso storico si è sbagliato di uno zero; è vero che si trattava di Gialli!) ma di 800.000, nel 65-66. Ora, l'oriente di Artaud non è per nulla quel luogo idil- 78
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