Pègaso - anno V - n. 6 - giugno 1933
superficie, e i l poeta si t r o v a senza saperlo a ridere attraverso le la– grime dei suoi personaggi, non perché prenda i n giro i l o r o affetti, ma p e r c h é ne dimostra con p i ù evidenza la natura poetica se non v o g l i a m o dire irreale. Se questo riso ariostesco si va d i solito a cer– care nei passi d'indole p i ù giocosa e maliziosa, ciò dipende dalla tendenza che si ha d i a t t r i b u i r g l i un'origine t a n t o o quanto i n t e n – zionale, o almeno d i considerarlo come u n fatto del poeta a n z i che della poesia. Si t r a t t a A r i o s t o come Boiardo. Anche Boiardo i n – f a t t i rideva; ma i l riso era i n l u i e da l u i cercava d i comunicarsi ai suoi u d i t o r i . Rideva degli incidenti che aveva creati, dei suoi scherzi d i parole, delle sue osservazioni ciniche e licenziose, e ragionevol– mente si aspettava che i suoi u d i t o r i i q u a l i facevano parte della bella baronia come l u i , obbedivano ai suoi stessi m o t i v i , erano adu– n a t i per d i v e r t i r s i come l u i , ridessero assieme con l u i . N e l « F u – rioso » invece i l sorriso che conta non è p i ù quello che sta sulla fac– cia dell'autore, ma quello che è nel tessuto stesso della poesia e l o pervade e l o definisce. È p i ù tipico nei passi p i ù commoventi nei q u a l i p i ù chiaro ci si presenta quel fatto, così giustamente notato dal De Sanctis, che A r i o s t o non porta mai le sue situazioni all'estre– m o . Dove le cose p i ù son fatte per commuovere i nostri affetti e p i ù l i commuovono, p i ù c'è bisogno di farne risaltare l ' i r r e a l t à , e p i ù questa i r r e a l t à , spontaneamente rivelandosi, r i p o r t a la nostra com– mozione dalla v i t a nell'arte. V i c i n o alla pazzia d i O r l a n d o c'è la morte eroica d i Zerbino. L a p i e t à , i l senso della devozione e dell'a– more sembrano fondere i cuori e inondare la scena. M a bastano i paragoni, basta i l t o n o elevato e prezioso d i quel dialogo i n cui Z e r b i n o i n p u n t o d i morte tiene a dar del v o i a Isabella e a parlarle con parole sceltissime, i n cui Isabella, che p u r ora dimentica della presenza d ' O r l a n d o era saltata al collo d i Zerbino, g l i risponde con t a n t o rispetto, a farci sentire che stiamo i n un'atmosfera t r o p p o su– b l i m e e rarefatta p e r c h é possa essere reale. L a scena, riassumendo i n sé t u t t o quanto i n poesia è bello nobile e pietoso, guadagna d i bellezza e q u i n d i d i v e r i t à ; ma rivelandosi per ciò che è, e cioè per u n episodio poetico, si mette i n riga con g l i a l t r i elementi del poe– ma. T r a breve A r i o s t o c o n n e t t e r à alla morte d i quella dolce Isa– bella l'elogio della marchesa d i M a n t o v a , e l'adulazione cortigiana si s a l d e r à con la descrizione della morte pietosa senza che si avverta sconcordanza o profanazione. L a sconcordanza e la profanazione ci sarebbero solo per chi, staccando con la riflessione le cose dal com– plesso del poema da cui ricevono la ragion d'essere e i l giusto t i p o d'esistenza, le volesse guardare i n sé e nella funzione che possono
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