Pègaso - anno IV - n. 11 - novembre 1932
586 C. Alvaro nostri rapporti non sapevo neppure come erano nate certe offese, e in che cosa consistessero. Quando uscimmo, ed ella era improvvi– samente stanca, con la sua emicrania che io sentivo una malattia della civiltà, ella mi porse il suo braccio tanto leggero, e ci sen– tivamo soli, come nel momento di una partenza per lidi mai prima vedluti. La notte era divenuta chiarissima, il cielo più alto, nel cielo erano descritti i pa.U di ferro, i lampiòni, l'antenna della stazione della radio, e il riflesso delle luci come una nube incandescente. Ella canterellava accanto a me come se rabbrividisse. Arrivammo alla stazione dove avremmo preso il treno di città. La gente si pi– giava nella saletta affumicata, alcuni portavano cappelli di carta verdli e rossi, con diverse scritte, e uno, buffo e storto come il per– sonaggio d'una :fiaba, portava la scritta: «Non mi piacciono le donne)). Si guardavano le scritte fra di loro, come se leggessero il nome d'una stazione o d'una strada, con ì'abitudline meccanica del leggere. Alcuni eràno ubbriachi, e stavanò cheti e malinconici come bambini stanchi, o come bambini stanchi piangevano. Elfrida si appoggiò al mio braccio, e tutti e due guardavamo le lampade che facevano un alone di gelo nel cielo che impercettibilmente schia– riva. Forse saremmo andati a bere in casa di altri amici che ci aspet– tavano, e tutti e due evitavamo col pensiero il momento in cui ci saremmo trovati a salutarci s1.1llaporta della sua casa. Facemmo un tratto di strada a piedi. Un uomo si avvicinò a noi chiedendo dlove si trovasse una stazione assai lontana di là; gli rispondemmo che prendesse il treno urbano alla stazione vicina, ed egli rispose che voleva andare a, piedi. - A piedi, arriverà domani mattina, - gli disse Elfrida. Non importava, voleva andare a piedi. Si avviò~ dopo ayerci guard~ti un [)OCo,con occhi di rimprovero, quasi fos– simo stati noi a fargli qualche male. Pensammo che forse non aveva denari per il biglietto e che non ar<lliva chiederci venti centesimi. · - No, - ella disse, - sarà meglio che andiamo a casa. - Eravamo stanchi. Mentre ella freddolosa si stringeva a me, io le dissi: - El– frida, abbiamo sbagliato, e io so una sola cosa, che ti amerei vo– lentier,i. Io ti vorrei amare. Aiutami Elfrida. - Salimmo insieme le scale, ci ritrovammo nella stanza grande. La serata al teatro, il ballo, le ore della :fine dell'anno, tutta quella umanità che aveva traversato il sentimento dell'inizio dli un nuovo anno mi diedero la speranza che ci saremmo riaccostati col cuore più sgombro. Mi si avvicinò e mi strinse che quasi soffocavo. Io non seppi dire altro che le parole solite, ormai tanto difficili da pronunziare : ti amo. Ma ella mi coprì la bocca con la mano, e: - Non si dicono queste parole; questo non è am0.re , non ~- - È vero; non è, - risposi io. Nel sonno sentivo c he ella v egliava, e che qualche cosa si posava sulle mie labbra. 1 Mi svegliai come all'alba di un amore, mi parve che un blocco di gelo si fosse sipezzato e ave~se fatto pullulare un BibliotecaGino Bianco
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