Pègaso - anno IV - n. 7 - luglio 1932
Giuseppe Cesare Abba e Mario Pratesi 23 perava la acerbità dei giudizi. A poco più di un anno di distanza, - il 23 giugno 1669, - lo stesso Pratesi scriveva, infatti, d'el Prati : .... A Firenze conobbi Giovanni Prati. Andai a casa sua, dietro suo invito. Mi parlò lungamente di letteratura e di politica, di tempi passati e presenti, e dell'avvenire. Lo trovai diverso da quello che m'era dipinto. Espansivo, cordialissimo, punto superbo. Mi recitò alcuni di quei cin– quecento sonetti che intende stampare in un volume a cui vuol p9rre il titolo di Anima.e mondo. Sonetti, quelli che mi lesse, bellissimi, concet– tosi, tutti nerbo e pensiero e originali per la scelta dei soggetti e per la maniera. Il cartegg_io attesta poi con quale obiettività i due amici, negli anni della giovinezza come in quelli della maturità, abbiano con– siderata l'opera, di altri scrittori contemporanei e come spesso l'ab– biano lodata anche entusiasticamente: dal Nievo al Carducci, al– l'Oriani, al De Amicis, al Fogazzaro. In queste lettere più giovanili, - alle quali, per necessità di spazio, deve limitarsi il saggio presente, - ricorre spesso, come è naturale, anche la nota politica. Ed _è fremente ed accesa : naturale anche questo, dati gli eventi del tempo. Il Pratesi, benché più giovane, era più moderato, come abbiamo visto dalle osservazioni sui Ricordi del d'Azeglio : e quindi osser– vatore anche più spassionato. Nella lettera, già citata, del 23 mar– zo 1867, scriveva: ..... Veggo dalla tua, lettera che ti duoli del nostro· sciagurato paese e a ragione dici che non siam popolo. Infatti per ora il cemento non regge e minaccia ad ogni istante franare. Né di qùesto è tutta nostra la colpa, ma è anc6ra dell'essere privi di uno di quei grandi intelletti che sanno costituire le nazioni e ridurle· non di nome, ma nell'essenza a unità. Quello che io pavento è la guerra civile, ma speriamo che ogni nube vada a sprigionare in Oriente le sue saette. Al vedere però la fiacchezza, l'apa– tia, e l'inettitudine con cui si procede mi sembra che la nostra rivolu– zione, più che a un risorgimento accenni a una decadenza. E noi siamo fiacchi e sciupati dalle pa,ssate tirannidi e nostra colpa maggiore è l'amore al dolce far niente, è la, leggerezza somma del nostro carattere. Speriamo nell'avvenire. Frattanto anche rispetto a libertà io più non nutro illusione. Anch'essa è un nome, un simbolo a&tratto; o monarchici o oligarchici o repubblicani, gli uomini non si governa.no senza la forza, la società non si regge senza un dominio. Però già nella lettera del 27 maggio 1867 diceva : Mio caro, è pur forza che fo lo confessi : anch'io poco a poco mi son divenuto repubblicano e desideroso d'una grande vendetta sociale.... o fratello mio Cesare, avevi ragione, avevi ragione 1 ). 1) Ma, deluso, scriverà all'Abba già il 18 dicembre 1870: ccE tu hai fede sem– pre nella Repubblica ? Non è anch'essa in mano degli uomini ? ». BibliotecaGino Bianco
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