Pègaso - anno IV - n. 7 - luglio 1932

Giuseppe Cesare Abba e Mario Pratesi 15 senza timore che vi rimanga perduto. Io ti posso raccontare cosa che contribui molto a formare il mio carattere, e mi predispose a certe riso– luzioni non del tutto oscure. Nel 1854, io studiava la rettorica. Il buon maestro che io aveva, era stato uno dei frati che nel 1848 .si erano ent1,1siasmati alla voce di Pio nono; e quantunque la commedia di costui giunta al terzo atto coll'en– ciclica dell'aprile 1849, gli avesse mozzata sulle labbra la parola, il buon frate non iscordò i palpiti che_avevano agitato il suo cuore, e alla cata– strofe di Novara, era entrato in iscuola colle lacrime agli occhi, e pianse e parlò d'Italia per quell(l due ore che gli erano segnate a commentare Dante e Virgilio. Ciò narravano a noi i suoi scolari di quell'anno, e quelle memorie erano ancora vivissime nel Maestro quell'anno 1854 in cui usci alla luce un poemetto di Mercantini Tito Spf}ri. Il Maestro ne leggeva ogni giorno un brano in iscuolaJ sul finire; e mi ricordo che quando giunse là dove il poeta narra d'un giovinetto comasco morente sulle mura di Brescia col nome della madre sulle lahbra, il padre Oanata piangeva e piangevamo tutti con lui. A quel racconto di ma,rtirio, mi pareva di vedere il gio– vinetto immerso in un mare di luce, e sento ancora adesso scrivendo i brividi, e i moti convulsi dei nervi, che mi facevano aggrappare-al banco come per tema che il turbine mi tras,portasse. . D'allora in poi, ogni qualvolta ho sentito parlare di patria, di libertà, ogni qualvolta ho vis,to gli amici colle armi alla, mano e il nemico di fronte, ho sempre avuto negli occhi quel giovinetto morente, e per le vene mi sentiva correre quelle vampe di fuoco, che tanto mi avevano sol– levato nelle quattro pareti della scuola di rettorica dinanzi al buon padre Canata ispirato come un profeta. Mario mio, m'accorgo d'essere stato lungo a narrare questa mia memoria; e per giunta trovo che volendo giovarmi d'un esempio ad esprimere meglio una idea, non vi sono riu– scito. Sia come vuol essere, ad ogni modo, io ti voleva dire che coll'af– fetto si può educare al bene e lasciare tracce di sé incancellabili nelle piccole creature che s'hanno a custodire. Ed ecco, ad esempio, come il Pratesi comunica le sue impres– sioni sulla prima lettura dei Rioo,rdi di Massimo d'Azeglio. Siena, Luglio 1867. .... Mi domandi che· fo. Non lo so nemmeno io. Le mie giornate sono più vuote d'un pozzo senz'acqua, e se di· qualche cosa son piene, non lo sono che di sbadigli, di noia, e di dolore soliti e fedelissimi miei com– pagni. Sono poi cosi scaduto d'ogni vigore che m'è impossibile lo stu– diare. Col caldo grande che fa, io ristretto nella mia cameruccia come un baco dentro al s·uo bozzolo (cameruccia che oltre ad essere angusta ed esposta al sole di mezzogiorno, è piena delle strida di donnacce, bam– bini, ortolani, merciai, e della musica de' cani che abbaiano nella strada), me ne sto tutto il di sdraiato sul letto, leggicchiando, sonnecchiando, smaniando sempre per le mosche e pel caldo. In tal piacevo! diletto ripenso le aure aperte del ma-re, le frescure dell'Alpe, il rezzo dei boschi BibliotecaGino Bianco

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