Pègaso - anno IV - n. 4 - aprile 1932

500 A. _MONTI, _Il conte Luigi Torelli Lo stesso concétto di Roma capitale ha- nel Ricasoli un significato diverso dal comune; che è quello di una pura e semp lice sostituz ione di · regime. A Roma lo Stato italiano non succedeva a monarcb.ie spente, - scrive in altra lettera -del 20 novembre, - e quindi quell'insedi arsi da invasori nei palazzi pontifici gli dà, un senso di fastidio, non tanto per una mancanza di riguardo all'autorità spodestata quanto per il prestigio e il decoro dell'Italia. La vecchia Roma eon le sue « anguste e luride strade>> conservava troppo il rièordo ,della città papale. La capitale bi– sognava crearla « sui colli più sani ed aprichi che anc6ra si trovano so– litari entro le cinte dell'antica Roma»; bisognava « gett:we le fonda- ' menta di una nuova Roma, della Roma moderna, il cui centro doveva essere il nuovo palazzo reale e prossimi i palazzi del Parlamento e dei ministeri; il resto sarebbe venuto per cura ,dei cittadini privati». Fece sue queste idee il Torelli ? Il chiarirlo, non sarebbe opera vana, perché il pensiero del Ricasoli e di colòro che lo condivisero non è ancora abba– stanza studiato. Nel 1874, a sessantaquattro anni, abbandonata la politica militante, il Torelli si rit.irav:a a vita privata e legava il suo nome all'opera degli Ossari della battaglia di Solfe:r:ino e di San Martino e a un tentativo di . bonifica dell'agro romano. 'l'empi mediocri. Passato il periodo eroico ·del' Risorgimento, questi uomini che avevano -combattuto e patito sembravano ripiegarsi -su se stessi e cercare -conforto nelle opere di pace. Siffatta insofferenza del presente e quasi delusione diventò motivo domin:ante nelle confidenze dei due amici. Non si ·doveva però dìsperare. « Oh, caro amico,·__:__ se.rive il Ricasoli nel 1879, - nulla deve valere a scoraggire l'animo nostro onesto e di ragione rioco. Sì, mio caro, diciamolo schietto, l'amor della Patria ancor. caldo di fantasia, ,ci presentò questa Italia in tutto quello che più aveva di seducente e magnifico; fummo noi che ci c];'eammo un'Italia in conformità ai desideri nostri che certo non erano viziosamente mo– desti». Ma non bisognava dimenticare che gli italiani per tanti secoli era-no •stati ,schiavi. cc Noi errammo i calcoli, .quando credemmo che gli . animi avessero precorso i tempi». A quelle prove do~orose che altri po– poli avevano durate per giungere al grado presente di civiltà e di po– tenza non poteva sottrarsi il popolo italiano : « se non che noi ci muove– rem<?con la spinta del vapore, e gli stadi pel;'eorsi dagli altri in secoli, noi li sorpasseremo in ragione di diecine d'anni. Non lo credi? Amico mio, io lo credo, e mi rallegro l'animo contemplando l'Italia fra venti o trent'anni». Era l'atto di fede pronunzìato dalla generazione che aveva-fatto l'Ita- lia, mentre si preparava a varcare le soglie della morte. · ANTONIO PANEJLLA. FAUSTOMARIAMARTIN1, Il silenzio, con Prefazione di Ugo Ojetti. - Mon– dadori, Milano, 1932. L. 10. Le pagine di questo libro postumo fanno tornar in mente una ima– gine di Heine. Scrivendole, Fausto Maria Martini doveva sentirsi bat– tere dentro sempre più assiduo il martello che ,ci lavora nel cuore la s·ibliotecaGino Bianco

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