Pègaso - anno III - n. 10 - ottobre 1931
Villa Beatrice 475 gialliti a vederli alla luce, accanto al bianco della tela nuova. Era lei che tagliava, sorridendo con gli occhi umidi : « Sarà un ma– schiotto? Sarà una femminuccia? Benvenuta sempre>>. E al ta· volino la signora faabella con gli occhiali che le davano un'aria da moglie di p_;i,store evangelico, e talvolta anche la tata, tutta compresa di quest' attei-tato di confidenza, movevano l'ago con una pienezza soave di cose indistinte nel cuore. Beatrice, inerte, in poltrona, osservava. I giorni passavano : uno per uno, lenti; ma, a ripensarli in complesso, rapidamente: da rimanere sorpresi. Quest'effetto pià che ogni altro lo provava Romualdo, in cui, via via che ci s'avvici– nava al maturarsi del tempo, cresceva l'agitazione. E doveva fare uno sforzo di volontà immenso per tener chiusa, segreta, la ragione del logorio, per nascondere l'angoscia stessa: nessuno doveva tra– pelar nulla : nessuno; per sé soltanto, l'angoscia : lui solo a soffrire. Dissimulava, anzi; e appena in casa, con tutti assumeva un aspetto ilare, gaio, come se le certezze più rosee lo ralÌegrassero. « Che na– turale felice ! è un piacere : fa bene anche a chi gli sta d'intorno>>– Cosi la signora Isabella. Era lui che rinfrancava, che ispirava in tutti una lieta fiducia, che dissipava ogni ombra. -Ma poi la notte non chiudev~ occhio; e non si poteva trattenere dall'entrare nella camera dove la moglie dormiva insieme alla madre. E alla luce del lumino da notte nella torretta di porcellana, che gli ricordava le notti vegliate della sua fanciullezza, alla casta luce del lumino antico richiamato a vigilare il sonno della nuova vita ancora Iion nata e già nata-non altra luce, non altra luce per codesto sonno-, egli indugiava a contemplare la madre, n viso di lei dormente. Pa– reva d'una materia ché non fosse carne: oltre la fragilità e la ca– ducità della carne : una natura refrattaria al tempo e al dolore. E d'una bellezza solenne e impassibile. Se non fosse stato il respiro dal ritmo profondo, quel volto si sarebbe dubitato se umano. Una placidezza, una serenità, una calma d'una più alta natura. Oh! non era possibile, no, non era possibile che quella portasse in sé una creatura che non fosse perfetta, una creatura deforme. E tro– vava pace, senza saziarsi della contemplazione. Nei momenti poi in cui era solo co~ lei, da che egli aveva saputo che la creatura aveva cominciato a moversi, egli chiedeva di poter palpare codesta mobilità; e al sobbalzare della cosa viva, sotto la delicata pressione, un rimescolamento a,nche in lui e un affretta,r il tempo col desiderio: « Ci siamo vicini!». Baciava quel punto. E l'amore per quel che s'era fatto sentire lì, vivo, era più forte di tutto. S'era digià all'ottavo mese, secondo i calcoli della signora Igi- ibliotecaGino Bianco
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