Pègaso - anno II - n. 8 - agosto 1930

152 S. Benco l'esilio. Cosi alto, smilzo, slanciato, imberbe (un esemplare della gi– raffa diceva egli) misurante le vie con due gambe di compasso irre– pren~ibilmeinte ri~de, sarebbe potuto sembrare, e coll1pieno diritto P er la sua età un raiO'azzo1I1e che avesse avuto il crescere disuguale e ' o lo sviluppo tutto osseo dell'adolescenza. Senonché nessuno avrebbe preso James Joyce per un ragazzone, tanta era- nella risolutezza della sua arndatura d'automa l'espressione di una vita già matura, già decisa, e che traesse autorità dalla propria sodezza. Passava volentieri le notti a bere, dice Francini; io di queste faccoode della ll1Otte1I1on ll1e~o mulla. Doveva essere ancora, dentro di sé, un di– S'creto ribelle: ma questi sentimenti tumultuosi, riservati all'Ir– larnda, anche annegati forse talvolta nel whisky e nel vino,· non eramo decifrabili per noi, che ammiravamo in quel suo slamcio gin– nastico la perfetta rispmdenza della macchina alle esigenze am– bulatorie della sua professione. Correva a dare la loro ora d'in-, glese, di casa in· casa, a tutti i triestini. Im verità, il nocciolo del– l'uomo sodo c'era. Strenuo e puntuale lavoratore, ottimo padre rli famiglia, stretto alla moglie, ai figli, alla casa. Ma dentro aveva il tormooto poetico, le acute discriminazioni critiche, la diavoleria paradossale di Joyce. Il suo amico Francini, con cui c'era la con– fidenza dei casi comuni, fu forse il solo mei primi tempi a saperlo: e dopo la guerra l<>ricordò in un libriccino vivacissimo, oggi al– quamto raro, che ba tratti biografici preziosi. Il titolo è brutto : Joyce intimo spogliato in piazza. Ma è la sola cosa brutta. Se non fosse in parte una caricatura, ce ne fideremmo molto più lar– gamente. Pure um momento vi fu, nel quale po00 mancò non si sooprisse il letterato J,oyce amebe a Trieste. Il dottor Roberto Prezioso, allora mio direttore al Piccolo, umo dei pochi cli.e si fossero stretti in ami– cizia com l'irlandese, mi pregò di voler rivedere la forma italiana di alcumi articoli su l'Irlanda che questi gli avrebbe portato. Debbo a ciò la conoscenza personale di Joyce. Egli voleva che la revi– sione avvenisse sotto i suoi occhi; e nom ·credo fosse diffidenza, ma v,olontà d'imparare. Per vero, negli arti0oli c'era da mutare ben poco; l'italiano vi si sentiva un ,po' duro e prudente; ma non mancava né di correttezza mé di tono espressivo quand'amche la , scelta del vocabolo appropriato non fosse sempre q~ella del purismo linguisti00. -,- Lei scrive in inglese e poi traduce? - gli chiesi. - No, scrivo direttamernte in italiano. - Erano ormai tre a:nni da' qurundo aveva i!llcominciato a impararlo: e rimase la linO'ua nostra o uno degli strumooti più perfetti tra le diciotto lingue amtiche e mo- derne delle quali egli costituì a poco a poco il suo tesoro di glot– tologo e di filologo. Parlava il greco antico e l'odierno il samscrito ' . ' l'arabo, tutte le lingue maggiori d'Europa; successivamente vi aggiun.se , oome ricercatezze e rarità, anche le minori. BibliotecaGino Bianco

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