Pègaso - anno II - n. 3 - marzo 1930

Cinquemila lire 339 Il secondo gior,no che l'Angiolina era a letto, Ila Marietta venllle da Felice, e gli dfase sottovoce : · - Babbo, non c'~ pane, in cucina. Felice fece l'incredulo : · - Davvero? - come se ,si tratitaisse dii uno ,scherw, di .ulllinci– dente curioso. A!Ildògiù oon lei, e rovistò dappertutto oome se fosse possibile che qualche oosa da mangi 1 are potesse esser~ ,amdwtosmar– rito o dimenticato, i111 cucina. I bambini lo guardavamo meravigliati ma anche un po' impau– riti: la sua allegria non era lllaturale, dava da poosa:re a peggio. Finalmente disse: - Ci si fa dare un pane dia Tito, per oggi. N,0111 mi era venuto a mente. Glli si rende domani. Ci aveva p,oosato subito, ma gli ci era voluto quel tempo per trovare il coraggio di decider.si. No111 c'era altro da fare. I bam– bini non andarono con lui; ma si leggeva il dubbio nei loro occhi stupiti. In casa trovò la Fosca; a lei non lo volle chiedere. Tito era a se– men tare, 111el campo da;ccapo a strada. - Tito, mi dai un pane ? Te lo re111do òlomani. Tito non si voltò .subito : rimase fermo, 00111 una volata di grano a mezzo nel pugmo; Felice aveva parlato con u,n tono dii voce spen– sierato, come se nioote fosse. Mia qurundo guardò T:ito in faccia, capì che e.erte oose non si possono nascoindere. Tito tuffò le mani nel sacchetto del grruno che aveva legato alla cintola : - Fatevelo dare, un pane, alla Fosca. E voltamdog1li l•e spalle, riprese a. spargere il iseme. A casa, a Felice non riuscì a buttar giù Ulll bocoo111e. Paireva che lo stomaco gli si fosse chiuso. La sera ven111e la Fosca a veder l' An– giolina a letto, e portò UIIlapentola di minestra. Per .sco111tare la roba che gli davano, Felice prese a far qualche faccenda intorno casa. In quei lavoTi manuali non era pigro, 001.zi si sentiva sempre ,di far di più di quel che proprio non doveva. S'at– taccava al !lavoro di rabbia, ,specialmeinte quando cominciò a lavo– rare, iintomo alla terra; come se avesse paura che gli mancassero le forze per arrivare in fondo. Illlvece si abituava, e le forze gli cre– scevruno, col lavor,are. Qurundo era stanco, stanco davvero, che le braccia e la vita no,n ne potevan più, ,stava meglio. Tito prendeva :male il v~rso di oomandarlo. Le f,accoode arre– trate eram tante, che appooa gli aveva assegnato ulil lavoro, ne ve– deva qualeun'altro, Ma gli restava dfiflicile. Velillileil giorno che Feliice lavo,rò la sua giornaJta come un operaio qualunque; fu lui a BibliotecaGino Bianco

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