Pègaso - anno I - n. 12 - dicembre 1929
736 G. Pasquali ciare in latino larghe tutte le vocali accentate è invalsa nel Medioevo per opera di maestri, che reagivano alla tendenza dei loro scolari di pronunciare certi o molto chiusi, quasi fossero u. Si sa che la diffe– renza tra la grafia pulcer, più antica, e pulcher, più recente, non corri– spondeva a una distinzione di palatale e gutturale. 'lutto questo si sa, e molto più. Si dovrà da queste nozioni trarre la conclusione pratica ? Si dovrà cioè insegnare ai ragazzi nelle scuole dalla prima ginnasiale in su a pro– nunciar «bene>> il latino, come da due anni si insegna nelle scuole di Prussia '? Io non ci vedrei nulla di male. Pronunciar le stesse parole cena e Roma in modo diverso in latino e in italiano, mi pare errore ridicolo; e l'identità dell'italiano con il latino, che in questo caso è identità vera, sarà meglio sentita con la pronuncia «scientifica». E la diversità di apertura, la « distinzione cli qualità» ricorderà ai ragazzi la quantità, e quindi quelFaccento nel quale peccano ormai troppo spesso anche i maestri. Fino i miei scolari universitari, quando leggono versi latini, mi fanno etiam regolarmente bisillabo, appunto perché pronun– ciano il t come una zeta e per conseguenza, se pur non per conseguenza rigorosamente necessaria, l'i come un j. E così via. E io confiderò ai miei lettori che da anni ho tratto quella conclusione pratica nel mio insegnamento, senza che gli studenti e le studentesse se ne esilarassero o ne rimanessero scandalizzati, tranne forse qualcuno nei primissimi giorni. Ma ci sono anche ragioni in contrario : non quella tradizione che è così comoda per gl'imbecilli, ogniqualvolta vogliono giustificare la loro imbecillit:ì, ! Piuttosto la riflessione che, se la nuova pronuncia s'introducesse, si dovrebbe, tranne per le strette e le larghe, perdere un po' più di tempo in principio con spiegazioni preliminari, ortografi– che, che, come sanno i maestri di greco, tarpano subito gli ardori allo scolaro, facendogli sentir subito la distanza, l' « intervallo di rispetto » dalla lingua che comincia a studiare. Ancor più importa un'altra con– siderazione. Noi della pronuncia antica possediamo il corpo, non l'anima che è morta, morta forse per sempre. Noi siamo foneticamente privilegiati rispetto a tutti, credo, gli altri popoli europei per questo riguardo, che a noi è naturale, congenita la sinalefe: noi sappiamo legare. Noi pro– nunciamo spontaneamenite conticuere omnes intentique ora tenebant senza saltare vocali, eppure facendo tornare il numero delle sillabe; un Tedesco sacri!fica l'e ultima di conticuere e di que, e non finisce ma tronca la parola sconciamente : conticuèr 1 , intèntiqu 1 , con uno stacco brutale dopo ciascuna cli queste parole. Ma noi Italiani paghiamo caro questo privilegio: la nostra lingua, almeno in quei dialetti toscani che ne hanno fornito una volta la base, e dànno ancora la norma anche per la pronuncia, non conosce quantità. Il Tedesco, per parlare di una lingua della quale ho esperienza viva, distingue brevi e lunghe bene in sillaba accentata, sufficientemente in sillaba atona !finale; in ita– liano normale, delle quantità non rimangono se non tracce sparute. Certo, io quando voglio dare a intendere ai miei scolari che cosa quan– tità sia, fo osservare quanto diversamente pronunci la prima sillaba BibliotecaGino Bianco
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