Pègaso - anno I - n. 10 - ottobre 1929

F. CHIESA, Racconti del mio orto 497 portando non solo a trasandatezze e sgrammaticature che non possono avere alcuna giustificazione artistica, a eccessive sospensioni che ge– nerano oscurità, mru a quella che per un artista è la condanna peg– giore : la rinuncia. Rinuncia a distinguere, a chiarire, a sceglier(? per condensare, insomma l'approssimazione frettolosa. Così, dall'insieme, invece che l'immagine di un raffinatissimo e in– tellettualissimo straniero, abbiamo il ritratto molto casalingo di certi « paini » fannulloni che, tra Via Veneto e Piazza Colonna, tutti abbiamo incontrato e sulle cui labbra si sfiacca un dialetto ben altrimenti vigo– roso e efficace per altre forme letterarie : il romanesco. E, guarda ironia del caso, le pagine che si salvano di questo libro o almeno le migliori (che non vogliamo passare sotto silenzio) sono pro– prio quelle in cui entra quasi di sorpresa e vibra un sentimento niente affatto esotico, raffinato e difficile, ma,,nostrano, tipicamente italiano, anzi quasi meridionale : la gelosia. E questa passione, che ben può nascere anche per una donna di quella fatta, prende in Terra vibrazioni e forme né più né meno che tradizionali; le quali non dirò che siano « rovettiane » ma che mi hanno fatto ricordare le pagine descriventi la disillusione d'amore in una situazione analoga, di un. nostro onesto, esperto scrittore (il paragone non è fatto a disonore) ma lontanissimo da ogni pretesa di novità esotica: L'uragano di Gino Rocca. Nel qual libro, del resto, erano altre intenzioni e altro clima. BONA VENTURA TECCHI. FRANCESCO CHIEJSA, Racconti del mio orto. - Mondadori, Milano, 1929. L. 10. Ci sono alcune figure di scrittori che quando uno cerca di rappre– sentare in un quadro complessivo la nostra letteratura contemporanea h1.n quasi ritegno di farsi avanti, non fanno gesti di richiamo, non gri– dano Io io io, e avviene qualche volta che ce ne dimentichiamo; ma quarnlo pot, scomposto il quadro e spenta la girandola, ci accade di ritrovarceli davanti: Càspita, si dice, m'ero scordato d'uno dei meglio; e siu,mo allora quasi portati a compensare con maggiore affetto il torto della momentanea dimenticanza. Del bel numero è Francesco Chiesa, prosatore. Aprire un suo libro vecchio o nuovo.,è come rinnova,re un patto d'amicizia, e tutto sommato, per un'ora della sua compagnia, lasceremmo perdere volentieri anchè i santoni della festa, i capoccioni riconosciuti del festival letterario, che per la loro stessa troppo marcata, e insistita personalità possono venire :f,acilmente a noia. Con Chiesa questo pericolo non c'è. A me è successo questo : di dover leggere i suoi racconti ultimi usciti col preciso incarico di riferire ai lettori di Pègaso. Mi armo dunque d'una matita, per appuntare quei tre o quattro giudizi suggeritimi caldi caldi dalla let– tura sui quali per solito si erige tutta la canonica dell'articolo, e parto in prima velocità con un occhio alle buche e l'altro alle voltate. Oh sì: leggi che ti leggi, l'abito conversativo dello scrit!ore era. talmente spouta11eo ,e cordiale ed io talmente preso dal gran piacere d1 sfarlo u, ioteca Gino Bianco

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