Pègaso - anno I - n. 9 - settembre 1929

L'Epistolario di itn poeta 277 Qu esta docilità di um8J1lista, la cui arte consiste 8J1lchenel saper tessere ghirlam.de di parole per ornaooe gli edifici che i potenti CO· strui•s cono e le fes te di cui si dilettano, è così a,perta e direi ingenua nel Monti, che disarma il giudizio morale e ottunde l'epigramma. Sono lID artefice della parola, egli oonfessa, e lavoro per chi ricorre alla mia arte, speratndo di trarne un guadagno che mi oooceda poi alcune ore di libertà, nelle quali io potrò dire francamente e per me solo ciò che mi canta nel« rifugio secreto>> della fant31Sia. Vorrei poter sempre verseggiare come il cuore e l'estro mi dettano, ma è questo un lusso che di rado i poveri poeti si possono c001cedere. llll– colpatene la vanità, l'orgoglio, la diffidenza verso i liberi ingegni di oui so1I1O infetti coloro che comandano e possono tener l'arte ed il pensiero al guililzaglio. Ma quelli che malignano contro di me e ne– gano ogni poesia ai miei versi, perché si piegano al mutare dei casi e no1I1 si mostrano sempre restii all'invito dei potenti, so1I10 censori indiscreti e misconosoo1I10i diritti dell'arte. Negano forse il IIlome di poeta al Poliziano, perché volle piaoere ai Medici, o all'Ariosto perché largheggiò di lodi verso gli Estensi, al Raciiile o al Molière perché mandarono tanto ÌIIlcooso di adulazioni alle narici del re Sole ? O credono forse che quel loro Shakespeare, il quale è ora d'a molti esaltato sopra ogni altro ,poeta moderno, ascoltasse soltanto la ~oHciz>nza e l'ispirazione quando, ililun ,suo dramma storico, lodava così stomachevolmente il pad're della regina sua protettrice, quel teologastro adiposo, sanguinario e poligamo, che si chiamò En· rico VIII ? Del resto Amleto ha fatto le scuse, ed un poco forse le vendette, anche di illoi tardi discendenti di quegli aedi girov,aghi che davam.o canto e avevano cibo, quando ha detto che nessulilo, se non fosse legato all'istinto vitale, vorrebbe sopportare l'odioso spet– tacolo dell'ingegno asservito o deriso, del merito calpestato dal· l'ignor8J1lza dei potenti. « Mentre voi andate vestendo del bello e magnifico stile italiano la splendida bile di Giovenale, - scriveva il Monti al Cesarotti nel– l'aprile del 1805 (Episrt., II, 400), - io vo toccando la corda pindarica per l'imperatore Napoleone. Il Governo mi ha così comandato e mi è forza obbedire .... Batto un sentiero ove il voto della nazione non va molto d'accordo colla politica e temo di rovinarmi. » La .politica voleva che egli lodaisse iiilNapoleoiile il nuovo re d'Iita– lia dopo aver tanto lodata la repubblica, cara agli Italiani perché l'avevano creduta premessa e anillunzio della futura indipendenza: ma così la Forza ordinava ed egli illOnpoteva che ubbidire. Quando 111el 1815 u111marchese Ghisilieri, commissario austriaco, invitò il Monti a scrivere una cantata per la venuta in Milano di u111 Arciduca abburghese, il poeta rispo,se: « Signor Marchese, io so1110 pronto ad ubbidirla, purché non si esiga dalla mia penlila neppur una parola BiblìotecaGmo Bianco

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