Pègaso - anno I - n. 9 - settembre 1929
R. DoLLOT, Les Journées Adriatiques de Steudhal 383 Ciò non toglie che le sue impressri.oni di Trieste sieno scritte sotto l'astro della disgrazia. Egli nulla sapeva della città quando qui venne, e credeva ili recarsi « in mezzo ai barbari» ; e prima che fosse vinto del tutto questo pregiudizio iniziale, prima che egli incominciasse a com– pren~er,e 'l'rieste, forse a invaghirsene, doveva partire. Di solito, nei passi delle- sue l~ttere che toccano di Trieste, egli è francamente di malumore. La pl'lma sera mangia da cane ciò che suol toccare a tutti i . . ' viaggiatori indispettiti; poi gli avviene un incidente che certo lo arro- vella: ha gettato nella latrina la biancheria troppo sbrindellata che non voleva buttar via pubblicamente, e ha otturato la conduttura fa– cendo nascere il cadeldiavolo nell'albergo; poi incomincia a morir di noia e di freddo e lo ripete spesso; poi gli pesa la gravità che s'è imposto per farsi credere uomo serio, equilibrato, accettabile anche dalla com– passata burocrazia absburgica. << Ho cercato di non fare nemmeno uno scherzo, da quando sono arrivato in quest'isola - egli scrive; - non ho detto una sola cosa che cercasse di essere divertente; non ho visto la sorella di un uomo; insomma sono stato moderato e prudente, e crepo di noia. » Quanto alla sorella dell'uomo, pare che non gli sarebbe spia– ciuto d'entrar nelle grazie della Unger, l'applaudita cantante del Teatro Grande; ma, forte in matematica, ella trovava che i quarantotto anni di lui non erano la stessa cosa dei venticinque d'un altro suo adoratore. Nemmeno gli dispiacque un'altra signora della società tedesca di Trie– ste; a lei era raccomandato da Mayerbeer. Esisteva una lettera al Mérimée, dove sembra egli parlasse di Trie– ste più distesamente. Ma il Mérimée, poco indulgente alle curiosità. dei posteri, aveva l'abitudine di distruggere le lettere. Certo che dell'interes– sante città in crescenza che era allora Trieste, della sua vivezza italiana, del gruppetto di letterati, di eruditi, d'artisti che pure vi si trovava, non v'è traccia in .Stendhal; e solo poco prima di partire incomincia egli a riconoscere: << mare e colline magnifiche. I primi giorni di primavera rendono leggiadra questa città » ; loda il selciato, << il più bello <l'Eu– ropa», e offre il «ponce» ai_« semiselvaggi >>, i Morlacchi di Dalmazia « belli, leali e leggeri», che vengono con le barche. Ma altre cose evi– dentemente ha per la testa. Tra altro, è uscito proprio in quei giorni a Parigi un romanzo del lontano esule, Il rosso e il nero. Chi ne sapeva nulla a Trieste? E a Venezia, dov'egli cercava consolazione? Venezia è l'estremo lembo del suo paradiso italiano; anzi è il paradiso del paradiso. Essa doveva dargli tutto quello di che si credeva obbligato a privarsi a Trieste; doveva essere il contravveleno contro la musoneria ufficiale che s'era calcata sulla faccia senza pensare ai suoi nervi. Una Venezia dunque a modo suo, da viverci a modo suo: intelli– gente godereccia e un po' licenziosa, alla maniera del secolo XVIII, del qual«/ tante cose ~opravvivono in essa, ed anc~e Enrico Beyle (m'insegna Ojetti) era il sopravvissuto. V'erano ancora signore che avevan figurato nel Settecento, e solo per longevità erano riuscite poi ad aprir le braccia a Lord Byron· v'erano poeti di sregolata vita e di vena libertina, come il Buratti eh~ allo Stendhal pareva un grande poeta; si lasciava il letto a me~zodì, si andava a cena alle due di notte;· il farmacista e poeta satirico Ancillo aveva l'importante carica di « don Marzio» nella bri- BibliotecaGino Bianco
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