Pègaso - anno I - n. 9 - settembre 1929
G. B. ANGIOLETTI, Ritratto del mio paese 365 di riesaminare le sensazioni e quasi di giudicarle. Questo lavoro portava con sé un male, di raffreddare sulla pagina le parole e le immagini; ma portava, anche, il suo vantaggio, che era di grandeggiar meno, dico meno del diritto, e giocare a carte scoperte. Ancora. Guardate Comisso, col suo occhio cupido e vagante, cercar le cose, e nominarle, calde di quella brama. Al confronto, le prime prose di Angioletti sono sorde: ma c'è un gusto suo alla riflessione, e un gioco sintattico e una logica e un rigor di stile che, a chi comincia, è stata sempre buona scuola, se dav– vero lo scrivere è una lenta gioia (o una lenta pena), non pioggia d'oro, come nella favola di Danae, o, per lasciare il parlar .figurato, assorbi– mento dei sensi pronti. (S'ha da dirla arte femmina?). È inutile, qui, dar la dimostrazione di quel che Angioletti debba agli altri, in questo lavorare sapiente. ,Si potrebbero ricordare le pagine più i,critte di Linati o le composizioni di Cardarelli : il segno grafico e la musica. E, perché no ?, anche Soffici (c',è un « azzurro squillante» che è suo). Ma questi raffronti son troppo facili, e dell'orecchio; e le lasceremo fare tra cent'anni, quando l'intonarsi richiederà, almeno più fatica e dottrina. Angioletti, comunque, parti di li; ma qualcos'altro, di suo, ha poi portato: un modo di discorrere interiorizzato, dove son venuti a confluire il sentimento affettuoso della sua terra, pungente e, direi, ingrandito dalla fantasia, e una capacità di dedurre dalle sensa– zioni motivi a riflessioni e a malinconie. Le cose «brave» (ce ne sono in quest'ultimo libro) son nate, se mai, dal voler guardare al di fuori, per guardare, a solo ozio della mente. E in proposito Angioletti ha te– nuto a darci egli stesso la chia,ve della sua vera vista, si tratti d'un paese o d'una pianta, magari soltanto d'una pianta. Tutto si muta, e cosi fu sempre, ma oggi più di ieri, per questa febbre moderna: gli uomini e le cose degli uomini. Non riconosciamo più il luogo dove na– soemmo, i volti dei nostri compagni. S'è progredito e pensato di più, apposta per vederci cancellate le memorie di ieri, e col bel guadagno d'aver ritrovato l'idea d'un «mondo» che pareggia tutte le vite e le inghiotte in una crudele astrazione. Ma c'è, ancora, un fiore, un ramo, la distesa dura dei campi, la distesa mobile delle acque. Qui, almeno, è dato di ritrovarci fra l'antico, il reale, il certo. Riconquisteremo, a traverso questa certezza, che nessuna nebbia superba ha offuscato, l'al– tra dell'umano· conoscere e dell'umano sentire, quando che sia: con nes;un orgoglio, ma per toccar, solo, l'essenza inquieta della vita. An– gioletti, l'ha detto da sé, non è un idillico. Non rimpiange quello che era ieri colla minuzia chiusa e col tono grigio degli idillici; soffre anche per quei che oggi è, anche bello, e che non sarà più domani. Sulla riva del Po guarda l'onda che scorre. « Qui la dolce parola fluire, serba intatto il suo incanto. Fluire, passare. Nessuno spettacolo ha maggior suggestione di un paesaggio ininterrotto e silente; e sia di uomini, di acq?e,. di nu– vole lascia desiderio di sé ogni cosa passata, ma presto langue 11 ricordo, e in quella che sopraggiunge ci confortiamo: purché il flusso non s'ar– resti. Così è del tempo, che porta ogni memoria e, appena è rimpianto, nuovi giorni -s'annunciano, ed ha ancora poesia 1~ vita: yurc~é non ~•ar– resti la morte. Immagini della nostra speranza, 1 grandi fiumi compiono il tradimento di sopravviverci.» BibliotecaGino Bianco
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